“Noi non abbiamo bisogno di soldi cinesi a Trieste. Noi non abbiamo i problemi che hanno la Grecia, il Pakistan o Gibuti, dove i cinesi hanno portato i soldi e poi è successo quello che sappiamo. E sebbene il container sia nato negli Stati Uniti, gli americani oggi non sono particolarmente attivi nel campo dello shipping e nel mondo portuale. Gli americani quindi non rappresentano per noi un’alternativa. Oggi il mondo dello shipping e dei container è concentrato in poche mani, che sono europee ed asiatiche”. Parla il presidente dell’Autorità Portuale del Mar Adriatico Orientale, Zeno D’Agostino
Fervono, nella capitale, i preparativi per la visita di Xi Jinping. Atteso giovedì pomeriggio, il presidente cinese sarà accompagnato dalla first lady Peng Lyuan e da una folta delegazione di businessman.
A partire da venerdì, l’ospite incontrerà, tra gli altri, il presidente Sergio Mattarella, i presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, il primo ministro Giuseppe Conte. Con quest’ultimo, Xi apporrà la firma all’ormai famoso Memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative (Bri), principale tra gli accordi negoziati in questi ultimi mesi sull’asse Roma-Pechino.
Accordi che, a quanto è dato di capire, includeranno intese specifiche sui porti di Genova e Trieste, candidati ad essere i terminali della Via della Seta marittima che collegherà il mercato cinese a quelli di Asia Centrale, Medio Oriente, Africa ed Europa.
Tanto inchiostro è stato versato, in questi giorni concitati, sulla Bri e sul ruolo di un Paese, l’Italia, che – primo dei G7 a farlo – aderisce ufficialmente al progetto bandiera del nuovo corso globale della Cina di Xi.
Inevitabili, le polemiche si sono concentrate proprio su quelle due città, Genova e Trieste, e sui loro porti. Lo spettro del Pireo, il porto il cui controllo la Grecia ha ceduto ai cinesi, ha proiettato sul dibattito ombre inquietanti. Ombre di una colonizzazione che avanzerà sull’onda dei debiti che contrarremo per realizzare la Bri e che, sospetta qualcuno, quando non saremo in grado di onorare ci costringeranno a cedere a Pechino le chiavi di infrastrutture strategiche.
È proprio per capire se siano giustificati tali timori che Start Magazine si è rivolto ad un uomo che, del porto di Trieste, conosce tutti i segreti: il presidente dell’Autorità Portuale del Mar Adriatico Orientale, Zeno D’Agostino. Una persona informata dei fatti, che meglio di altri può aiutarci a capire cosa succederà veramente dopo che Giuseppe Conte avrà firmato quel benedetto Memorandum. E che, soprattutto, è il più indicato a dirci se il destino di Trieste sarà davvero lo stesso del Pireo.
Presidente D’Agostino, ci spieghi cosa fa di Trieste l’interlocutore naturale di Pechino.
A prescindere dai cinesi, l’Alto Adriatico e in particolare Trieste sono nel posto giusto al momento giusto. Perché quello di Trieste è un porto che permette di entrare nella parte più produttiva d’Europa, che si sta trasferendo verso Est. Ci sono stati diversi fenomeni importanti a livello macroeconomico negli ultimi tempi che hanno portato allo spostamento di tutta la parte manifatturiera verso l’Europa centrale ed orientale, che rappresentano oggi dal punto di vista del Pil le aree più importanti del continente. Questo ha un riflesso evidente sulle attività del porto di Trieste, che nei soli ultimi due anni ha registrato una crescita dei container di circa il 50%, dato che dimostra la crescente importanza del corridoio adriatico. Noi abbiamo investito molto sulla parte ferroviaria: abbiamo oggi treni che vanno in Germania, Austria, Belgio, Lussemburgo, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca. Siamo diventati dunque una porta privilegiata per l’area più importante del pianeta. Di qui l’interesse, più che comprensibile, dei cinesi.
Anche alla luce dell’interesse cinese e di un progetto ambizioso, la Belt and Road, che dovrebbe presto atterrare nella vostra città, possiamo dire che Trieste si sta avviando verso un futuro che – per usare una suggestiva immagine – la farà diventare la Singapore d’Europa?
Singapore è una città-stato che riesce a restare autonoma pur trovandosi in un’area ad altissima influenza cinese, è partita dal porto per sviluppare poi finanza e tecnologia. È un esempio calzante per Trieste, che ha Generali, Fincantieri, Illy Caffè, attività nate collegate all’ambito portuale e diventate poi elementi centrali della città ma svincolati dal porto. Io dico sempre che il futuro del porto non è il porto. Noi dobbiamo spostare l’elemento della competizione al di fuori del porto, perché ci sono nostri competitori molto bravi che possono anche giocare sul fattore costo che a noi è precluso. È per questo che dico che dobbiamo spostare fuori dal porto determinate dinamiche di sviluppo.
Ma cosa comporterebbero concretamente per Trieste, in termini di investimenti e sviluppo di infrastrutture, le nuove via della Seta?
Dico subito che noi non abbiamo bisogno di soldi cinesi a Trieste. Noi non abbiamo i problemi che hanno la Grecia, il Pakistan o Gibuti, dove i cinesi hanno portato i soldi e poi è successo quello che sappiamo. Se noi avessimo bisogno di soldi, potremmo rivolgerci a importanti soggetti finanziari locali, vedi Generali che non è seconda a nessuno al mondo da questo punto di vista. Il nostro è un luogo che cresce intorno al porto con tantissime attività. All’interno di questo quadro si inseriscono gli investitori che sono sia nazionali che stranieri, cosa scontata visto che il porto è un settore aperto e globalizzato. Per me la cosa si può fermare qui e ripeto, non abbiamo bisogno dei soldi cinesi. Ieri avevamo una missione dei qatarini, tanto per fare un esempio. Abbiamo nel porto tante realtà globali dello shipping e della terminalistica e ognuno di queste investe a Trieste. Noi oggi diamo concessioni a fronte di piani industriali che prevedono una componente di investimento privato pari al 100%, caso unico, perlomeno in Italia. Noi prima definiamo lo sviluppo, poi diamo le concessioni. Per cui a me il ragionamento sulla Belt and Road interessa solo relativamente.
L’esempio del Pireo è dunque fuori luogo?
Ripeto: chi parla così non sa cosa sia un porto italiano. Noi abbiamo il demanio che è patrimonio dello Stato. Noi gestiamo per conto dello Stato questo patrimonio dandolo in concessione. Quindi, non capisco tutta questa enfasi sul fatto che ci siano i cinesi, piuttosto che qualcun altro, che si appropria di parti fondamentali dello Stato. Non è semplicemente previsto dalla nostra normativa, come non lo è da quella comunitaria. Il Pireo è un’eccezione, non la normalità. Farlo diventare il caso di riferimento per Trieste o per Genova è sbagliato.
Sono in corso però, a quanto ne sappiamo, trattative per fare entrare la China Merchant Group – colosso statale e principale compagnia terminalistica di Pechino – in una società concessionaria di un terminal del porto di Trieste. A che stadio sono le trattative?
Stanno andando avanti e dovrebbero concludersi tra poco. Siccome però stiamo parlando di un soggetto concessionario, qualsiasi tipo di cessione anche di quote non rilevanti della società dovranno poi essere vagliate dall’autorità portuale. Bruxelles ha appena emanato una direttiva che prevede di controllare qualsiasi cessione di società che comporti potenziali effetti negativi sui nostri interessi, ad esempio in materia di sicurezza. Perciò nel caso in cui la cessione di cui stiamo parlando non fosse in linea con le normative italiane o comunitarie, si attiverebbe un processo di revoca della concessione.
Alla fine, dunque, la storia di Trieste e della Belt and Road è davvero una tempesta in un bicchiere d’acqua, come dice il ministro Tria, o stiamo per fare un passo storico che ci porterà chissà dove, probabilmente lontano da Washington?
Devo rilevare che, sebbene il container sia nato negli Stati Uniti, gli americani oggi non sono particolarmente attivi nel campo dello shipping e nel mondo portuale. Gli americani quindi non rappresentano per noi un’alternativa. Oggi il mondo dello shipping e dei container è concentrato in poche mani, che sono europee ed asiatiche. Sono le compagnie asiatiche ed europee che determinano la competitività di un porto, perlomeno nel settore container. È quindi oggettivo che bisogna dialogare con loro, non certo con gli Stati Uniti, per tutto ciò che riguarda lo sviluppo di questo settore.