Che cosa si dice a Pechino dell’offensiva degli Stati Uniti contro il colosso cinese Huawei? Conversazione di Start Magazine con Francesco Sisci, uno dei maggiori sinologi, autori ed esperti di Cina
Il caso Huawei ha creato non poche fibrillazioni nel mondo economico-finanziario, che solo pochi giorni prima aveva esultato alla notizia della tregua alla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. L’arresto in Canada di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del colosso cinese delle telecomunicazioni, getta un’ombra cupa sulle relazioni sino-americane e mette a nudo la vera posta in gioco: la dura competizione tra superpotenze per il primato in campo tecnologico, ma anche militare e strategico. Una competizione che, a quanto pare, non escluderà colpi mancini e imprevedibili. È uno scenario che trasuda incertezza e che lascia tutti sulle spine, rendendo quanto mai incerto il cammino del rapporto bilaterale più importante del pianeta.
La richiesta di arresto ed estradizione nei confronti del CFO di Huawei? “Non sappiamo esattamente di cosa sia accusata”, dice Francesco Sisci, uno dei maggiori sinologi, autori ed esperti di Cina, in una conversazione con Start Magazine: “Quel che abbiamo saputo attraverso i media è che l’accusa mossa nei suoi confronti è in relazione ad una presunta violazione dell’embargo americano verso l’Iran. Secondo l’accusa americana, Huawei avrebbe esportato in Iran materiale che aveva contenuti americani. Ma le carte, ancora, non le ha viste nessuno”.
Il caso, però, è esploso in modo dirompente e ha già provocato l’ira del governo cinese, che sabato ha espresso la sua ferma condanna attraverso il suo viceministro degli esteri. “Al momento”, osserva Sisci, “è arrivata una minaccia pesante nei confronti del governo canadese. Si parla addirittura di gravi conseguenze. Questo significa che la Cina è molto nervosa per questa vicenda, in quanto teme che non verrà concessa la libertà cautelare a Meng e che alla fine sarà estradata negli Usa”.
“Finora però”, aggiunge Sisci, attualmente è professore all’Università del popolo della Cina, “la questione è rimasta confinata al Canada: la Cina infatti, almeno per ora, non vuole che l’incidente minacci il rapporto con gli Stati Uniti. Siamo infatti ancora dentro i novanta giorni di tregua dichiarata dal presidente americano Donald Trump e da quello cinese Xi dopo il bilaterale avuto a margine del G20 di Buenos Aires, e la Cina non vuole rischiare di compromettere quel risultato”.
A Buenos Aires, Cina e Stati Uniti hanno raggiunto un’intesa che blocca provvisoriamente i dazi elevati dagli Usa nei confronti di duecento miliardi di dollari di esportazioni cinesi in America. In cambio, la Cina si è detta disponibile ad aumentare immediatamente le importazioni di merci americane e a modificare quelle pratiche in campo commerciale che l’America considera sleali.
L’arresto di Meng, a questo punto, non si configura come una mina che rischia di far deragliare il treno dell’accordo sino-americano? “Per il momento”, risponde Sisci, “siamo dentro i novanta giorni di tregua, che scadranno all’inizio di marzo. Entro quel termine, la Cina dovrà presentare il risultato di quello che ha fatto per venire incontro alle richieste americane. Altrimenti, su di essa pende la minaccia di un nuovo giro di sanzioni molto pesanti e di un peggioramento della guerra commerciale. Ecco perché la Cina, anche se messa di fronte allo scottante caso Huawei, cerca di contenere i danni. È un segno che, al di là della questione particolare, la Cina è intenzionata a venire incontro alle richieste Usa. Vuole cercare una via d’uscita dallo scontro”.
Lo scontro tra Cina e Usa è però alimentato da accuse pesanti che coinvolgono direttamente aziende come Huawei. Che, ricordiamo, è accusata di essere il cavallo di Troia cinese per penetrare nei sistemi informatici occidentali e permettere al governo o all’intelligence di Pechino di condurre un’azione sistematica di spionaggio. È per questo motivo che gli Usa hanno proibito l’acquisizione nel settore pubblico di tecnologia Huawei e fanno pressioni sugli alleati affinché facciano altrettanto, una pressione cui hanno ceduto recentemente i governi di Australia e Nuova Zelanda.
I cinesi, in poche parole, ci stanno spiando tutti attraverso Huawei? “Non lo so”, risponde Sisci, precisando, significativamente, che “se l’accusa fosse accertata, non saremmo qui. Io francamente non so perché questa accusa venga fatta girare”. Si tratta allora, gli chiediamo, di una diffamazione? “Non so se sia una diffamazione” risponde Sisci, che cerca di aggirare l’ostacolo riportando la discussione su un altro piano. “Il mio punto di vista è che dietro questa accusa si celi un problema più generale: è la crescente sfiducia dell’America e dell’Occidente rispetto a quello che le aziende tecnologiche cinesi fanno. Questo è il problema essenziale. Al di là della realtà delle accuse che vengono rivolte ad Huawei o ad altre aziende, questa sfiducia sta incrinando i pilastri del rapporto della Cina con il mondo occidentale. Le faccio un esempio banale: se lei comincia a sospettare che sua moglie la tradisce, al di là del fatto che ciò sia o meno vero, questo sospetto già incrina il rapporto”.
Già, ma il rapporto sino-americano è comunque deteriorato da sospetti reciproci, da veleni che inquinano una relazione che, con una vistosa accelerazione dai tempi dell’elezione di Trump, si è allontanata di molto dal sentiero della cooperazione per entrare nel terreno di una competizione strategica che prefigura uno scontro tra titani. Una lotta che investe tutte le dimensioni della potenza, non ultimo quella tecnologica che è diventata il metro essenziale di misura delle capacità di un paese.
In questo senso, dietro la mossa americana di chiedere l’arresto di Meng si cela un disegno, vale a dire la volontà statunitense di ostacolare l’ascesa cinese colpendola in un campo, come quello della tecnologia, su cui l’ex celeste impero sta puntando tutte le sue carte per affermarsi in campo globale? “C’è in America”, spiega Sisci, “un radicato timore del sorpasso economico, tecnologico, strategico e militare cinese. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che l’America sta anche trattando con la Cina. Se fossimo già alla guerra, gli americani non tratterebbero. L’America sta ancora lasciando molte porte aperte. Per tornare all’esempio di prima, c’è il sospetto che la moglie tradisca, ma non si è ancora sicuri di questo”.
Ok, ma il provvedimento giudiziario nei confronti di Meng non dimostra che c’è la volontà, da parte americana, di essere determinati nel contrastare con tutti i mezzi il tentativo cinese di allargare la propria influenza? “Il caso Meng prova certamente che c’è una luce verde da parte di vari dipartimenti americani, incluso quello della giustizia, contro alcuni cittadini cinesi considerati pericolosi. Questo è senz’altro un cambio di passo dell’America verso la Cina. Comportamenti che prima erano trascurati, come sospetti di contrabbando o di commercio di materiali sensibili, oggi sono sanzionati. E non c’è solo Huawei nel mirino, ma tante altre aziende. In più questi comportamenti non vengono sanzionati solo in America, ma anche nei paesi alleati, quindi in mezzo mondo. C’è un rialzo della tensione e un passaggio ad una nuova fase dei rapporti bilaterali che prova quanto ormai gli Usa abbiano sfiducia nella Cina a 360 gradi”.
La sfiducia, naturalmente, è reciproca. Come l’acrimonia. A giudicare da un articolo del New York Times di sabato, in Cina i sentimenti ribollono: c’è chi invoca ritorsioni nei confronti dell’America, come il boicottaggio delle sue merci o addirittura l’arresto di cittadini americani residenti in Cina. Siamo insomma nella tipica situazione che può provocare quelle fiammate nazionalistiche che abbiamo visto in azione in altre circostanze. Chiediamo a Sisci fin dove si possa spingere questa rabbia, e se magari il governo di Pechino non vorrà assecondarla, se non alimentarla, in una sorta di strategia della tensione.
“Quello che vedo ad oggi”, risponde Sisci, “è che il governo centrale cerca di contenere la situazione, non vuole esasperarla, non adesso almeno. La Cina non è una macchina che funziona sempre allo stesso modo. La Cina sta certamente capendo la profondità dell’animosità americana e di molti paesi verso se stessa. Consci di questa realtà, i cinesi non vogliono far esplodere questa cosa. Perché sanno che il prezzo che pagherebbero per un’esplosione sarebbe enorme. Credo che anche gli americani non vogliano oggi una guerra totale”.
In effetti, la tregua raggiunta al G20 dimostra che ci sono ancora margini per riportare la relazione bilaterale su un piano più equilibrato. Quali sono dunque i pronostici di Sisci sull’accordo che cinesi e americani sono chiamati a raggiungere al termine dei novanta giorni di pausa concordati da Xi e Trump? “Nei prossimi tre mesi vivremo uno stato d’incertezza”, è il suo parere, “anche perché non sapremo fino alla fine se quello che i cinesi prometteranno sarà sufficiente per soddisfare gli americani. Non sappiamo neanche se ci saranno ulteriori azioni americane contro i comportamenti cinesi. Sembra, comunque, che ambedue i paesi vogliano contenere questa situazione. Questo offre un motivo di speranza, anche perché la tensione tra Usa e Cina non è come tra America e Corea, o il problema della Libia per l’Italia; è un affare globale che comporta il ridisegnare tutto l’ordine politico ed economico del mondo”.