L’annuncio della morte di Hamza bin Laden, figlio del fondatore e capo di al Qa’ida nonché candidato naturale alla sua successione, è ancora in attesa di conferme. Se la notizia si rivelasse vera, quale conclusione dovremmo trarne sulla minaccia del jihadismo globale di cui al Qa’ida è, insieme allo Stato Islamico, uno dei motori?
Secondo Lorenzo Vidino, che degli studi sul jihadismo è un autorità indiscussa anche fuori dal nostro Paese, la prudenza è d’obbligo, essendo già successo che i capi jihadisti fossero dati per morti prima di vederli risbucare vivi e vegeti. Per il direttore del Programma sull’estremismo alla George Washington University, l’eventuale scomparsa del leader in pectore di al Qa’ida rappresenterebbe in ogni caso più un colpo d’immagine che un vulnus organizzativo per un gruppo che al giovane Hamza non aveva ancora affidato alcun ruolo operativo.
Vidino prende nettamente le distanze dallo spin che vorrebbe il jihadismo in ginocchio a causa di colpi come questo o della sconfitta territoriale del califfato che ha spinto ripetutamente Donald Trump a dichiarare ko il nemico islamista. L’esperto, al contrario, invita a leggere attentamente i report dei servizi segreti di tutto il mondo che descrivono non un ripiegamento bensì un’evoluzione della minaccia jihadista. Che per Vidino conserva intatta la sua natura di insorgenza globale portata avanti da una miriade di sigle sparse su tre continenti e tutte più o meno inserite nell’orbita delle due case madri rivali dello Stato Islamico e di al Qa’ida. Guai, insomma, ad abbassare la guardia.
Lorenzo Vidino, che pensa dell’annuncio della morte di Hamza bin Laden?
Partiamo dal fatto che questa notizia andrebbe confermata. Anche perché i vari capi del jihadismo, incluso il padre Osama, sono stati dati varie volte per morti, e poi la notizia si è rivelata falsa. Detto questo, se la notizia fosse vera, sarebbe senz’altro un duro colpo al prestigio di al Qa’ida, anche se non all’organizzazione in sé, perché è opinione comune che Hamza, da un punto di vista operativo, non avesse alcun ruolo. Era certamente un predestinato, ossia qualcuno che la leadership di al Qa’ida voleva sfruttare soprattutto a scopo mediatico, in virtù del suo cognome e del suo sangue, per attrarre simpatie nel mondo jihadista che negli ultimi anni erano passate verso lo Stato Islamico.
L’idea che gli americani veicolavano già all’epoca di Obama era che al Qa’ida fosse braccata e che quindi non rappresentasse più una grave minaccia. Noi però sappiamo che non è così, vero?
È proprio così e mi spiego: siamo in una fase storica che ricorda quella di dieci anni fa, in cui si pensava che il fenomeno jihadista fosse in una fase calante se non morente. Si pensava così perché era stato ucciso Osama bin Laden e al Qa’ida non riusciva a mettere più a segno attentati importanti. Inoltre, nel 2011, scoppiarono le primavere arabe, che dettero l’impressione di una parabola discendente del fenomeno jihadista. La sensazione che si aveva allora è analoga a quella di adesso, in cui si è registrata la sconfitta territoriale dello Stato Islamico e non si vedono più attentati eclatanti in Occidente da un paio d’anni. In questa situazione, il mondo politico, che vive come sappiamo di slogan, non resiste alla tentazione di considerare il jihadismo in crisi. Peccato che, se uno si prende la briga di leggere le relazioni dei servizi segreti di tutto il mondo, dovrà constatare che la situazione non è affatto così. Proprio in questi giorni è uscito un report delle Nazioni Unite sul jihadismo che offre una valutazione ben diversa, che è quella di una fase nuova del jihadismo, diversa da quella degli ultimi anni ma non per questo meno pericolosa. Il jihadismo sta conoscendo altre dinamiche, sicuramente molto fluide ed in evoluzione, ma siamo ben lontani dalla sua fine.
Tra l’altro chi le parla ha recentemente visto una rappresentazione cartografica dei focolai del jihadismo nel mondo che mostra chiaramente come la minaccia sia ben presente in un vastissimo arco geografico che va dall’Africa Occidentale all’Indonesia. C’è un denominatore comune in tutti questi teatri paralleli del jihad dominati da una pluralità di attori e sigle?
Siamo di fronte ad movimento ideologico e ad un’insorgenza globali, con degli obiettivi globali, che vede però varie incarnazioni a livello locale. Nella fase attuale esistono due gruppi transnazionali, lo Stato Islamico e al Qa’ida, che competono per il supporto di queste varie realtà locali. Ogni realtà locale è naturalmente inserita in un proprio scenario, ha delle proprie forze e debolezze, sfrutta le dinamiche dell’ambiente in cui opera e partecipa a questo gioco di alleanze tra lo Stato Islamico e al Qa’ida. Alla fine, comunque, parliamo di un movimento unito dalla medesima ideologia, il jihadismo salafita, con qualche minima differenza a livello più che altro di tattiche e una competizione tra i due gruppi incentrata soprattutto sulla questione della leadership.
Esistono stime del numero complessivo di militanti o affiliati al movimento jihadista globale?
Ci sono, ma sono poco affidabili. Se devo riferire la cifra meno sballata parliamo di circa centomila militanti sparsi in tre continenti.
Un numero che, in una logica di guerra asimmetrica, rappresenta un bel guaio.
Assolutamente sì, anche perché alcuni di questi gruppi hanno ambizioni di controllo territoriale. Un esempio che posso fare è quello di Boko Haram, un gruppo che bene o male riesce a controllare il territorio e a muoversi come forza pararastatale o insorgenza militare. In altri casi, siamo di fronte invece a cellule o network di soggetti radicalizzati che operano nell’oscurità ma non per questo sono meno letali, come abbiamo visto in Sri Lanka qualche mese fa.
Oltre al collante ideologico, questi gruppi sono accomunati anche da quello che un analista qualche tempo fa definì il fattore “sceicco Google”, ossia il ruolo di internet e dell’universo della comunicazione telematica come veicolo usato dai gruppi jihadisti per la propaganda, l’indottrinamento, il reclutamento e il coordinamento. Governi e colossi del web in questi anni hanno adottato varie contromisure per espellere questa malapianta dalla rete. Le giudica efficaci?
Diciamo che le piattaforme principali come Facebook, Google e Twitter che cinque anni fa erano state colonizzate dai gruppi jihadisti hanno fatto passi da gigante nell’arginare la presenza del jihadismo, anche se siamo lontani dalla perfezione. Il problema è che c’è stata una migrazione verso altre piattaforme secondarie, la prima delle quali è Telegram, dove il jihadismo la fa ancora da padrone.
Mi dice un’altra piattaforma sfruttata dai jihadisti?
Si chiama Zello. C’è stato un caso di un ragazzo di origine marocchina a Torino che insieme ad un altro simpatizzante dello Stato Islamico di base in Texas gestiva una chat di gruppo su Zello con dodicimila persone. Ci sono due aspetti da sottolineare di questa migrazione verso piattaforme secondarie, uno positivo e uno negativo. Da una parte queste piattaforme non consentono ai jihadisti di avere la stessa esposizione di prima, ossia di rivolgersi ad una audience ampia come quella offerta da Facebook. Ma è altresì vero che per le autorità è molto più difficile controllare cosa succede su queste piattaforme o chiudere questi canali.
La sconfitta dello Stato Islamico in Siria ed Iraq ha aperto un problema non da poco che è quello dei foreign fighters di ritorno. Stiamo parlando dei reduci e dei sopravvissuti di quella poderosa ondata di musulmani di tutte le provenienze, Europa inclusa, che avevano fatto armi e bagagli per andare nel Siraq a fare il jihad per conto del califfo, per al Nusra e altre formazioni combattenti. Alcune migliaia sono ora nelle carceri irachene e in quelle gestite dai curdi siriani e sappiamo che molti governi europei, almeno all’inizio, non avevano alcuna intenzione di riprenderseli. Come si sta comportando l’Italia da questo punto di vista?
L’Italia tendenzialmente si riprende i suoi foreign fighters in primo luogo perché i numeri sono molto bassi: un conto è riprendersene una decina, come stiamo facendo noi, e altro è riprendersene centinaia come dovrebbero fare paesi come il Belgio o la Francia. In secondo luogo, l’Italia ha delle buone leggi che permettono di processare i soggetti che sono ritornati. Che io sappia, quelli che sono ritornati nel nostro Paese sono al momento in carcere in attesa di giudizio.
E saranno processati sulla base di quali capi di imputazione?
Dipende da caso a caso, ma in gran parte sono accusati di essersi uniti ad un’organizzazione terroristica. Ribadisco comunque che noi in Italia siamo meglio attrezzati rispetto ad altri paesi, sia da un punto di vista quantitativo che da un punto di vista normativo, per affrontare e risolvere questa situazione.
E sul piano delle misure per la deradicalizzazione, su cui c’è stato un’ampio dibattito in questi anni?
Purtroppo la legge che doveva affrontare questo aspetto e che fu presentata nella scorsa legislatura dall’ex magistrato antiterrorismo Stefano Dambruoso non arrivò in aula. Era stata calendarizzata nel dicembre 2018 ma poi il Parlamento fu sciolto. Al momento, dunque, in Italia non esiste un sistema normativo di deradicalizzazione. Ciò non vuol dire che la comunità dell’antiterrorismo italiano non abbia strumenti e risorse per gestire quella che è una minaccia tutto sommato limitata. Se quella legge fosse passata avremmo avuto sicuramente qualcosa di più strutturato e organico, però – ripeto – la comunità dell’antiterrorismo ha i suoi strumenti per cercare di riabilitare i soggetti radicalizzati.
Ci fa qualche esempio?
Potrei citare i casi del camionista convertito di Bari e del ragazzino di Udine che disseminava propaganda online che sono stati sottoposti ad una serie di provvedimenti giudiziari per far loro intraprendere un percorso di riabilitazione. Nel caso del camionista, il Tribunale di Bari ha deciso, tra le misure preventive, di accompagnarlo in un percorso di rieducazione gestito da una serie di esperti dell’Università di Bari.
Sembra di capire che, in assenza di una norma organica, questi casi vengano affrontati con delle misure ad hoc, concordate di volta in volta.
Sì, è tutto demandato al singolo tribunale o al singolo giudice. C’è tutto un lavoro tra organi inquirenti, Digos, servizi e tribunali che affronta queste situazioni caso per caso. La legge avrebbe semplicemente messo a sistema una prassi che c’è già.