“Per Londra, alle prese con Brexit, non è una scelta facile: il bando di Huawei significa mettere a rischio le relazioni economiche con la Cina, ossia una dimensione essenziale di quella “Global Britain” che dovrebbe in teoria sostituirsi alla “European Britain”. Ma la pressione americana preoccupa soprattutto altri paesi europei, a cominciare dalla Germania, vista l’importanza del mercato cinese. E certamente preoccupa l’Italia”. È quanto sottolinea tra l’altro Marta Dassù, senior director per l’Europa dell’Aspen Institute, in una conversazione con Start Magazine
Il dipartimento di Giustizia Usa lunedì ha contestato ben 23 capi d’imputazione a Huawei e alla sua direttrice finanziaria nonché figlia del fondatore, Meng Sabrina Wanzhou. Il colosso di Shenzhen è accusato, tra le altre cose, di aver rubato segreti commerciali all’americana T-Mobile. Ed è proprio il furto di segreti commerciali, insieme alla violazione della proprietà intellettuale e ad altre contestazioni, ad essere al centro del negoziato commerciale tra Stati Uniti e Cina, che si riapre oggi con la visita a Washington del vicepremier Liu He. Due partite, quella su Huawei e quella sulle pratiche sleali del Dragone, che si intrecciano nel contesto di una sfida a tutto campo tra due superpotenze che si contendono la leadership politica, economica e tecnologica in un mondo che, a questa competizione, guarda col fiato sospeso, in attesa di capire con chi schierarsi.
Per comprendere le radici, i motivi e le prospettive di quella che ormai tutti definiscono la guerra fredda tecnologica tra Stati Uniti e Cina, Start Magazine ha intervistato Marta Dassù, senior director per l’Europa dell’Aspen Institute. Una persona che conosce a fondo le dinamiche del potere in un mondo dominato dalla rovente contesa tra una potenza dominante ma in declino, gli Stati Uniti, e un rivale in ascesa, la Cina. Un duello che si gioca su più piani, non ultimo quello per il dominio nel settore delle nuove tecnologie in cui lo sviluppo della rete mobile di quinta generazione, in cui un player come Huawei punta a ritagliarsi un ruolo di protagonista, rappresenta oggi il più importante terreno di gioco.
Marta Dassù, l’amministrazione Trump è impegnata in un deciso contrasto dell’influenza del suo principale concorrente, la Cina. Uno sforzo che investe tutte le dimensioni del potere, economico, commerciale, geopolitico, militare, tecnologico. È una sfida che è in atto da tempo, ma che sotto il governo guidato dal tycoon ha subito una drastica accelerazione. Come si è arrivati a tutto questo?
L’America vede nella Cina di Xi Jinping il principale rivale strategico del 21° secolo. Questo non da oggi. La presidenza Obama aveva cercato di contenere Pechino con altri metodi: per esempio con il TPP, il Trattato Transpacifico da cui l’amministrazione attuale ha invece deciso di uscire. Donald Trump preferisce una trattativa dura e bilaterale. C’è quindi una differenza di approccio importante. Ma la vera differenza è che il confronto, dal commercio, si è allargato al controllo delle tecnologie sensibili. Siamo agli inizi di quella che è stata definita una nuova guerra fredda tecnologica. E la competizione riguarda l’artificial intelligence e la sicurezza delle reti 5G.
L’apertura di un negoziato commerciale, chiamato a dirimere una ampia serie di punti relativi ai comportamenti cinesi che l’America considera scorretti, è al momento il fronte più incandescente di questo confronto tra superpotenze. Vede la possibilità di un’intesa, o anche secondo lei la distanza tra i due paesi è così ampia, e la deadline fissata da Donald Trump (1 marzo) troppo vicina, per poter sbrogliare la situazione?
Pechino sembra intenzionata a trovare un accordo parziale, facendo alcune concessioni sui punti che Washington ha sollevato – e in parte sono punti legittimi, visto che riguardano la concorrenza sleale, a cominciare dalla tutela della proprietà intellettuale. D’altro canto, settori importanti del business americano sono fortemente esposti, visto che l’intero modello Amazon, Walmart, ma anche Apple dipendono dal ruolo dell’anello cinese nella catena globale del valore. L’impressione, tuttavia, è che le posizioni di Washington e Pechino siano troppo distanti per un accordo vero. Potrà trattarsi di una intesa temporanea e di facciata.
Il governo Usa ha deciso di prendere di mira Huawei, campione nazionale cinese nel settore delle telecomunicazioni, per contrastare l’affermazione della Cina in un ambito nevralgico quale quello delle nuove tecnologie. Tutti gli alleati degli Usa stanno subendo pressioni affinché impediscano ad Huawei di partecipare alla realizzazione delle infrastrutture del 5G. L’Occidente secondo lei si compatterà sulle posizioni anti-cinesi dell’amministrazione Trump e rinuncerà ai servizi di una compagnia come Huawei che era ben piazzata per svolgere un ruolo di primo piano nel decollo del 5G?
Una parte degli alleati più stretti degli Stati Uniti sta già aderendo al bando della tecnologia Hauwei nelle infrastrutture 5G: mi riferisco al gruppo dei cosiddetti “Five-eyes”, che hanno accordi particolari nel campo dell’intelligence. E’ un gruppo che include, assieme agli Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna. Per Londra, alle prese con Brexit, non è una scelta facile: il bando di Huawei significa mettere a rischio le relazioni economiche con la Cina, ossia una dimensione essenziale di quella “Global Britain” che dovrebbe in teoria sostituirsi alla “European Britain”. Ma la pressione americana preoccupa soprattutto altri paesi europei, a cominciare dalla Germania, vista l’importanza del mercato cinese. E certamente preoccupa l’Italia. Washington mescola considerazioni di sicurezza e pressioni economiche. E questa nuova “guerra fredda tecnologica” tende a dividere il mondo in sfere di influenza.
Il caso Huawei ha travolto il Canada, reo – secondo la Cina – di aver proceduto all’arresto nel suo territorio di Meng Wanzhou, la direttrice finanziaria di Huawei, su mandato della giustizia Usa che l’accusa di aver violato le sanzioni contro l’Iran. In questa singolare “diplomazia degli ostaggi”, Pechino ha alzato la posta incarcerando due cittadini canadesi con l’accusa di attentare alla sicurezza nazionale e condannando a morte un terzo canadese per reati di droga. Pensa anche lei che questa impasse potrà essere risolta con un accordo politico a tre, Cina, Usa, Canada, che porti alla liberazione dei rispettivi ostaggi?
Il Canada è schiacciato dalla competizione Usa-Cina e qualunque accordo sarà semmai, in prima battuta, tra Pechino e Washington. Mi sembra significativo, a tal proposito, che l’ambasciatore canadese a Pechino, che aveva mosso obiezioni alla linea dura su Huawei, sia stato rimosso dal governo Trudeau.
Nel negoziato tra Usa e Cina si può incuneare il dossier Nord Corea. C’è stata recentemente un’accelerazione nel processo diplomatico in corso tra Washington e Pyongyang, che hanno concordato un nuovo vertice tra Trump e Kim da tenersi a fine febbraio. E Kim Jong-un si è recato nuovamente a Pechino all’inizio dell’anno per coordinarsi con Xi Jinping. Crede anche lei che la Cina possa usare la propria influenza sulla Nord Corea come merce di scambio nel negoziato commerciale con gli Usa?
Sarà possibile qualche passo simbolico, ma certo nulla di radicale, visto che non esiste un accordo vero neppure sul significato della parola “denuclearizzazione”. Kim Jong-un ha smesso di lanciare missili balistici attraverso il Pacifico ma escluderei che accetti di “denuclearizzare” il paese. E’ la garanzia di sopravvivenza del regime.