Nei territori armeni recentemente riconquistati dagli azeri nella guerra del Nagorno-Karabakh, si profilano scenari che destano preoccupazione. Lo sviluppo che si prospetta ora presenta tutte le caratteristiche della “pulizia etnica”. Oltre a essere stati costretti ad abbandonare le proprie case, gli armeni potrebbero subire ora quello che Cristina Maranci sul Wall Street Journal denuncia come “genocidio culturale”: le basiliche, le biblioteche, i cimiteri, i luoghi di culto cristiani sono adesso esposti alla profanazione se non alla distruzione da parte dell’Azerbaigian musulmano, sostenuto dalla Turchia di Erdogan il cui ruolo è stato determinante per la vittoria azera. È un sospetto più che fondato perché, come sottolinea la Maranci, “i governi dell’Azerbaigian e della Turchia hanno messo in atto da tempo la ben documentabile politica di distruzione metodica del patrimonio culturale armeno nei loro territori”. Giusto per fare un esempio, tra il 1997 e il 2006 nella zona di Nakhicevan sono state abbattute numerose chiese medievali, croci di pietra e antiche pietre tombali. Giù durante il recente conflitto, d’altra parte, i militari azeri si sono distinti per aver fatto un uso mirato dell’artiglieria contro luoghi di valore inestimabile come la cattedrale del Santo Salvatore della città di Shushi. L’epurazione culturale che va profilandosi si consuma parallelamente alla tragedia umanitaria del Nagorno-Karabach. Secondo fonti armene sono oltre 100 mila i civili fuggiti per trovare riparo in Armenia, molti dei quali hanno preferito dare fuoco alle loro abitazioni piuttosto che consegnarle agli azeri: interi paesi e città vengono abbandonati per cambiare di nuovo la loro storia e la loro nazionalità passando dall’Armenia all’Azerbaigian. Uno dei centri simbolo di questa disfatta è Kalbajar, diventato ormai un villaggio fantasma: quasi tutti gli edifici sono stati incendiati dagli stessi armeni, pur di non lasciarli intatti agli azeri, i quali a loro volta hanno accusato gli armeni di praticare quello che loro definiscono ‘terrorismo ecologico’; stessa sorte è toccata al villaggio di Charektar, al confine con il vicino distretto di Martakert che rimarrà sotto la giurisdizione armena. Questa triste vicenda è il prezzo che si paga alla ridefinizione non solo dei confini ma degli stessi equilibri politici nella regione del Caucaso i cui burattinai si preoccupano ben poco dell’immenso patrimonio culturale lasciato allo sbando. È soprattutto per evitare che la situazione degeneri e sfugga di mano che Parigi ora pretende di essere coinvolta nel gruppo di controllo che in base agli accordi di pace è stato incaricato di monitorare il cessate il fuoco. C’è infatti il fondato sospetto che Turchia e Russia mirino semplicemente a consolidare la propria egemonia a scapito dei diritti degli armeni: l’impegno russo incluso nelle intese di pace che i propri peacekeepers proteggeranno anche i giacimenti culturali non sembra in effetti una garanzia sufficiente. Dietro l’intervento della Francia si scorge l’intendimento di fare in modo che l’accordo ispirato dal Cremlino sia in qualche modo inserito nella cornice formale dell’originario ‘Gruppo di Minsk’ che oltre a Mosca comprende Parigi e Washington.