Due autobomba scoppiate ieri a Bengasi ripiombano la Libia nel caos, riportando in primo piano la situazione ingestibile di un paese che non riesce a venire a capo delle sue contraddizioni e delle sue lotte intestine. Il duplice attentato di ieri porta la firma, a quanto pare, di due sigle islamiste – le Brigate del 17 Febbraio e Ansar al-Sharia – che rappresentano la nemesi dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar, che contro di esse aveva scatenato un’imponente operazione militare nel 2014 (“Dignità”) e aveva persino dichiarato vittoria. Le bombe di ieri dimostrano che la partita fratricida in Libia è ancora aperta.
Per avere ragguagli su quanto accaduto ieri, e soprattutto per capire quali vie d’uscita siano disponibili per il paese più disastrato del Mediterraneo, Formiche.net ha intervistato Michela Mercuri, docente di paesi mediterranei all’Università di Macerata e autrice del recente libro “Incognita Libia. Cronache di un paese sospeso” (FrancoAngeli).
Prof.ssa Mercuri, doppio attentato ieri a Bengasi con almeno 33 morti, cosa sappiamo?
Le notizie che sono giunte sino a questa mattina individuano come mandanti di questo attentato delle forze jihadiste, riconducibili soprattutto a due nomi, le Brigate del 17 Febbraio e un vecchio nome a noi noto, Ansar al-Sharia, che si è resa consapevole peraltro dell’attentato dell’11 settembre 2012 all’ambasciatore americano Chris Stevens. Queste forze avevano l’obiettivo di colpire le unità del generale Haftar, che è colui che da tempo, dai giorni dell’Operazione Dignità del 2014, ha ingaggiato in questa zona degli scontri con le milizie islamiste. Si tratta dunque di una sorta di regolamento di conti tra forze contrapposte da tempo.
Al di là del regolare i conti con Haftar, avevano un obiettivo preciso secondo lei le milizie che hanno commesso gli attentati?
Ogni forza in Libia in questo momento vuole rivendicare il suo potere. Non dimentichiamoci che siamo in un periodo particolare per la Libia, quello preelettorale. E le varie forze in campo, quelle islamiste e quelle fedeli al generale Khalifa Haftar stanno tentando di attuare delle prove di forza per aumentare il loro peso specifico all’interno del panorama libico. Le forze islamiste con questo attacco probabilmente miravano a screditare il generale Haftar. Ma io credo che Haftar possa addirittura uscirne rafforzato, perché se da un lato lui ha sempre detto di voler combattere gli islamisti, dall’altro questa deriva securitaria può portare proseliti ad un uomo che si sta ergendo come baluardo nei confronti della sicurezza, per lo meno nella regione,
Bengasi è stata l’epicentro della guerra tra Haftar e le forze islamiste, che il generale ha ripetutamente dichiarato vinta. Dobbiamo attenderci una recrudescenza di questo conflitto? Ci sarà nuovo spargimento di sangue?
Temo proprio di sì. Questo è un pretesto per Haftar per attuare una politica ancor più muscolare, non solo a Bengasi ma in tutta la Libia, accreditandosi quale attore indispensabile per il ripristino della sicurezza in tutto il paese. Non dimentichiamoci che questa non è la prima volta che forze islamiste e forze del generale Haftar si scontrano. Questo sicuramente sarà il pretesto per nuovi scontri all’interno del paese. E questo ci riporta ad un altro tema importante, cioè la necessità di stabilizzare la Libia, anche per limitare lo strapotere di alcuni gruppi che sono presenti all’interno del territorio. Penso allo Stato islamico, che è stato espulso da Sirte nel 2016 ma si è semplicemente rifugiato nel Fezzan. E non c’è solo lo Stato islamico. C’è anche al Qa’ida nel Maghreb islamico e tante altre organizzazioni. La Libia è ancora una polveriera, e quello di ieri è l’ennesimo evento che ce lo testimonia.
Quanto pesa negli equilibri del paese, o meglio nell’assenza di equilibri, la voluta presa di distanza degli Stati Uniti?
L’assenza degli Stati Uniti in questo momento non è la causa dell’instabilità. Tra l’altro gli Stati Uniti in Libia non hanno mai avuto un ruolo eccelso. Nella famosa intervista all’Atlantic del 2015, Barack Obama confidò che l’intervento in Libia fu il più grosso errore della sua amministrazione. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto nei confronti della Libia la politica del “leading from behind”, lasciando agli europei il bandolo della matassa. Credo che ci siano attori importanti in questo momento nel territorio come la Francia, la Russia, anche l’Italia che dovrebbero superare certe divergenze e trovare un accordo per un dialogo inclusivo in Libia. La Russia sta con Haftar. L’Italia è molto vicina a Fayez al-Serraj. La Francia ha un ruolo più ambiguo. L’Europa è molto divisa. Dunque, al di là degli americani, io credo che gli attori internazionali che in questo momento hanno un ruolo in Libia dovrebbero sforzarsi di cooperare per evitare questo caos.
In questa situazione a dir poco farraginosa e di sovraffollamento di attori e agende contrapposte che margini di manovra ha il mediatore Onu Ghassan Salamé?
Salamé quando ha assunto l’incarico per la Libia ha detto una cosa: bisogna far dialogare gli attori locali. Questo era un buon punto di partenza. Però al di là di questo la situazione libica è talmente complessa che gli si sta ritorcendo contro. IL ruolo di Salamé può essere importante ma soltanto se gli attori internazionali che in questo momento sono invischiati in Libia collaborino davvero. E non solo gli attori internazionali di cui ho parlato prima. Ci sono anche gli attori regionali. Non dimentichiamo che Turchia e Qatar stanno finanziando gruppi jihadisti all’interno del paese. Abbiamo l’Egitto che è molto vicino ad Haftar. Quindi se non riusciamo anche a far dialogare gli attori regionali, qualunque tentativo di mediazione per quanto buono e spinto dalle migliori intenzioni non porterà ad alcun risultato.
Ci sono le condizioni secondo lei per tenere le elezioni quest’anno in Libia?
No, in questo momento non ci sono le condizioni perché la Libia è in preda ad una deriva securitaria. Prima di indire delle elezioni dobbiamo capire quali sono gli attori del territorio e cercare di creare tra loro delle coalizioni. Perché altrimenti le elezioni si risolverebbero con la vittoria di qualcuno come Haftar, o addirittura Seif al Islam di cui tanto si parla, insomma avremmo un leader che non governerà sugli attori locali Perché in realtà il potere i Libia non ce l’ha Haftar, non ce l’ha Serraj e non l’avrà alcuna persona che uscirà vincitrice dalle urne, ma ce l’hanno le forze locali. Bisogna creare le precondizioni per avere delle elezioni in Libia perché altrimenti poi potremmo avere un leader che rischia di essere defenestrato il giorno dopo.