La squilla è arrivata attraverso il consueto tweet di Donald Trump. “Gli Stati Uniti”, ha scritto il presidente Usa sul suo medium preferito, “chiedono a Gran Bretagna, Francia, Germania e ad altri alleati europei di riprendersi e processare gli oltre 800 combattenti dell’Isis che abbiamo catturato in Siria. L’alternativa non è buona perché saremmo costretti a rilasciarli”. Il capo della Casa Bianca rimette dunque al centro dell’attenzione un problema che destò turbamento ed allarme negli anni dell’irresistibile ascesa dell’Isis, quando almeno 40 mila persone provenienti da cento Paesi diversi – di cui seimila dal Vecchio Continente – hanno compiuto l’”egira”, l’emigrazione, nei territori del neo-costituito Stato Islamico, chiamati da Abu Bakr al-Baghdadi ad unirsi alla causa e ad imbracciare le armi per lui. Questi “foreign fighters” hanno rappresentato un formidabile asset per l’Isis: un’armata di volontari che ha ingrossato le fila del suo esercito, moltiplicato la sua proiezione di potenza e conferito al movimento un appeal internazionale. Ora, però, il sogno di fondare un grande impero in Medio Oriente si è infranto dinanzi ai colpi della coalizione messa in campo nel 2014 dall’ex presidente americano Barack Obama e portata avanti dal suo successore repubblicano. Dello Stato che si estendeva a cavallo di Siria ed Iraq, in un territorio ampio come la Gran Bretagna con almeno otto milioni di sudditi, resiste oggi solo una minuscola enclave nella valle dell’Eufrate. Nell’imminenza della conclusione delle operazioni militari, Trump ha annunciato che i duemila soldati Usa dislocati in Siria rientreranno presto a casa. Prima però, avverte il presidente, bisogna risolvere il problema di quegli ottocento miliziani nelle mani dei curdi. Nonché delle centinaia di mogli che li hanno seguiti nell’avventura e delle migliaia di figli nati sotto lo Stato Islamico o arrivati piccolissimi nel Siraq. I governi europei sono però riluttanti. Di quei pericolosi seguaci del verbo jihadista che vantano cittadinanza e passaporto Ue preferirebbero scordarsene. La Francia fa sapere che non intende riaccogliere nessuno e che, solo per i soggetti meno problematici, deciderà “caso per caso”. Simile la posizione di Londra, restia a riaprire le porte a chi ha combattuto per una causa efferata o l’ha anche solo appoggiata. Il governo di Theresa May ha addirittura tolto la cittadinanza a Shamima Begum, la diciannovenne londinese che, nel 2015, abbandonò il Paese insieme a tre compagne di scuola per diventare una “sposa dell’Isis”. Shamima però si è pentita e vorrebbe tornare, fa sapere dal campo profughi in cui è custodita insieme al figlio. Il suo caso ha spaccato la Gran Bretagna proprio come ha fatto, in America, quello di Hoda Muthana, la ventiquattrenne dell’Alabama emigrata in Siria quattro anni fa: con un tweet, Trump ha dato istruzione al suo ministro degli Esteri di procedere alla cancellazione della sua cittadinanza. E l’Italia? Dei 135 jihadisti partiti dallo Stivle si hanno notizie di tre reduci, tra cui il bresciano Samir Bougana. “L’Italia non muoverà un dito per riportar(lo) qui”, dichiara il vicepresidente leghista della Commissione Esteri della Camera, Paolo Grimoldi. Confinati in un limbo giuridico, gli jihadisti europei sono un bel grattacapo per i rispettivi governi. Che devono fare i conti con la prospettiva, ventilata dallo stesso Trump, di un loro rilascio. Il rischio è che alcuni trovino da soli la via del ritorno ed entrino in azione in Europa, come fecero quei foreign fighters che colpirono Parigi nel novembre 2015 e Bruxelles nel marzo successivo. Si chiama “effetto blowback”, ed è qualcosa che non possiamo sottovalutare.
Trump e la riluttanza dell’Europa: ci sono 800 jihadisti da processare
Pubblicato il 25/02/2019 - Messaggero Veneto
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