Quando si è, al tempo stesso, partito di lotta e di governo, le contraddizioni prima o poi deflagrano. È quanto sta succedendo, in questi giorni convulsi, al M5S. Il quale, nato come forza anti-sistema, si trova oggi al timone – in coabitazione con l’alleato leghista – di un Paese complesso. Gestire le numerose priorità del Paese è compito che ricade, oggi, sule spalle di un partito strutturalmente impreparato a superare la prova. Quanto abbiamo visto in occasione della diatriba sul Tap, il gasdotto transadriatico, è la cartina al tornasole dell’inconciliabilità tra la vocazione movimentista degli stellati e l’aspirazione, diventata realtà lo scorso 4 marzo, a incarnare una rivoluzione governativa. Per i grillini, la vittoria alle urne è arrivata anche grazie alla capacità di cavalcare i malumori del Paese. Senza la linea “no Tap”, scandita a gran voce da esponenti di punta del movimento, difficilmente il M5S avrebbe incassato l’exploit elettorale di marzo. Ora, però, che il leader Di Maio ha indossato la grisaglia ministeriale, il movimento deve misurarsi con le scelte strategiche di un intero Paese. Quelle che hanno condotto il governo precedente a dire sì al Tap in nome di un’esigenza cogente: una bolletta meno cara per milioni di cittadini e decine di migliaia di imprese tricolori. Non è tanto una questioni di penali, come indica, piuttosto imbarazzato, Di Maio. In ballo ci sono le priorità economiche di un Paese privo di risorse proprie e cronicamente dipendente dall’export energetico di uno Stato, la Russia, poco affidabile dal punto di vista geopolitico. Diversificare le nostre fonti di approvvigionamento non è solo suggerito dai legami internazionali del nostro Paese – è stato Donald Trump, ricevendo il primo ministro Giuseppe Conte a Washington lo scorso luglio, a esigere dall’Italia il rispetto degli accordi sul Tap. Siamo semmai di fronte ad una decisione chiave per la seconda manifattura d’Europa, che senza copiosi rifornimenti energetici camminerebbe azzoppata sul sentiero dello sviluppo. Il riluttante sì di Di Maio al Tap indica, forse, una conversione del M5S sulla via di Damasco, vale a dire una svolta sviluppista di un partito che, fino ad ieri, urlava gioioso i suoi slogan sulla decrescita felice? La controffensiva sullaTav, su cui il M5S continua a lanciare i suoi strali, indica tutto il contrario. Il no alle grandi opere incornicia ancora il volto barricadiero dei grillini. È un no ideologico, identitario, senza il quale il M5S rischia di restare orfano del sostegno di parte della sua base elettorale. La contraddizione grillina, essere al governo ma interpretare ancora il ruolo di guastatore, non può che avvantaggiare la Lega di Matteo Salvini. Che ora, di fronte allo spasimo del M5S, non può che apparire come l’unica forza affidabile insediata nel Palazzo. Quella che tutela gli interessi cardine del nostro Paese, senza solleticare la pancia di un elettorato in rivolta.
Tap e spasimo dei 5S: la Lega gongola
Pubblicato il 31/10/2018 - Il Piccolo
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