Il 2018 sarà l’anno del rilancio del processo di pace tra Israele e palestinesi. A gennaio, Donald Trump svelerà i dettagli del suo “accordo finale”. Un’iniziativa di cui si conoscono già i contorni, desumibili dalle mosse tracciate dal presidente Usa e dal suo consigliere nonché genero Jared Kushner, l’uomo cui Trump ha affidato il compito di studiare il complicato dossier israelo-palestinese e di gestire le relazioni con le principali potenze coinvolte. L’iniziativa della Casa Bianca ricalcherà grosso modo lo schema seguito nelle trattative degli ultimi vent’anni. Si baserà sul principio, condiviso dalle parti nonché dalla comunità internazionale, dei “due Stati per due popoli”, separati dai confini nati dalla guerra dei Sei giorni del 1967, con concessioni territoriali reciproche per accomodare la situazione demografica creatasi negli ultimi cinquant’anni, e con una condivisione della sovranità su Gerusalemme. La mossa del 6 dicembre di Trump, che ha annunciato il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della Città Santa come capitale dello Stato ebraico, va interpretata sotto questa luce. È il sasso nello stagno di un negoziato che si era bloccato in questi ultimi anni a causa dei travagli di questa regione incandescente. Si tratta, senz’altro, di un favore fatto a Israele, che spezza un equilibrio oltremodo precario e rompe con quella linea di “equivicinanza” favorita, almenoi pro forma, dall’Unione Europea. Ma questo giudizio, ripetiamo, prescinde dai passi successivi che l’America ha in animo di compiere. E non tiene conto di una realtà geopolitica profondamente cambiata. Gli Stati Uniti possono permettersi di fare un regalo ad Israele perché sanno che gli interlocutori arabi dello Stato ebraico oggi guardano a quest’ultimo non più come ad un nemico, come è stato almeno dal 1948, ma come un alleato. Oggi, potenze come Egitto, Giordania, e soprattutto l’Arabia Saudita sono assorbite dalla preoccupazione per la minacciosa presenza, nel Levante, delle milizie sciite inquadrate dall’Iran. Di quelle forze cioè che hanno vinto la guerra civile in Siria, prevalendo sulle opposizioni sunnite al presidente Bashar al-Assad che i paesi arabi hanno strenuamente sostenuto. La presenza, in un continuum territoriale che da Teheran arriva a Beirut, passando per Baghdad e Damasco, di combattenti fedeli agli ayatollah inquieta il mondo arabo. Che per questo guarda ad Israele come partner. Perché questa insolita alleanza si realizzi, sotto la regia di Washington, è però necessario rimuovere l’incomodo dell’irrisolta questione palestinese. La minaccia di un nemico comune permetterà molto probabilmente un miracolo. Cui nemmeno i palestinesi speravano più.
Una strana alleanza per rilanciare il processo di pace
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