In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, le incognite sul negoziato commerciale Usa-Cina a meno di una settimana dal giorno in cui l’America dovrebbe, se nel frattempo Pechino non si redime e firma un accordo vantaggioso per l’America, introdurre nuovi dazi sulle merci cinesi
PRIMO PIANO: LE INCOGNITE DEL NEGOZIATO COMMERCIALE USA-CINA
Governi, mercati e analisti attenderanno con il fiato sospeso lo scoccare della mezzanotte del 15 dicembre, giorno in cui l’amministrazione Trump farà sapere se intende procedere o meno con l’annunciata introduzione di nuovi dazi al 15% su 160 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina – l’ultima fetta di made in China destinata al mercato americano ancora non toccata dalla furia protezionista trumpiana.
A quel punto, il mondo intero saprà se la guerra commerciale tra Usa e Cina è destinata a proseguire sine die, ovvero se la superpotenza a stelle e strisce – rinunciando all’ultima staffilata contro il proprio rivale – proclamerà una tregua e si accingerà a siglare con Pechino un deal, o comunque un compromesso, sui commerci.
Il clima, a dire il vero, non è dei più propizi, anche a causa delle recenti affermazioni con cui il presidente Usa ha lasciato intendere – seminando il panico sui mercati globali – che, se dipendesse da lui, la firma di un accordo potrebbe benissimo scivolare a dopo le presidenziali 2020. Se devo sottoscrivere qualcosa, è il pensiero di The Donald, meglio che sia un accordo risolutivo e soprattutto conveniente per gli americani, altrimenti va bene così: i dollari che fluiscono copiosi nelle casse del Tesoro Usa grazie ai prelievi sulle importazioni dalla Cina non dispiacciono affatto al capo della Casa Bianca.
Per Pechino, naturalmente, tale prospettiva sarebbe a dir poco infausta. È per questo che, nel fine settimana, la commissione statale sui dazi del Consiglio di Stato di Pechino ha reso noto che rinuncerà ad applicare, com’era invece nelle intenzioni iniziali, tariffe punitive sulle importazioni dall’America di soia e carne di maiale (erano state fissate, nel luglio 2018, al 25%, come ritorsione per le analoghe misure prese dagli Usa nei confronti dell’export cinese).
Annunciando la decisione, il ministro del Commercio cinese Gao Feng ha espresso l’auspicio che dopo questo atto di buona volontà, “i dazi” imposti reciprocamente dalle due superpotenze “siano ridotti di conseguenza”.
In attesa di capire se il ramoscello d’ulivo cinese avrà partorito i risultati sperati, è bene precisare che dalle parti dell’ex impero di mezzo nessuno nutre soverchie illusioni sull’accondiscendenza degli Usa. Pechino, al contrario, sta mettendo in campo tutti gli accorgimenti necessari a parare i colpi dell’America e, soprattutto, non soccombere.
Ecco, così, che anche per quanto riguarda gli acquisti di carne di maiale e soia – che in Cina si consumano come l’acqua e l’aria – il regime sta da tempo seguendo il suo piano B, riducendo la dipendenza dalle forniture americane e aumentando gli acquisti da paesi terzi. Mentre dunque le importazioni di soia made in Usa sono crollate di ben il 90% negli ultimi due anni, gli acquisti da Argentina e Brasile si sono impennati.
A diminuire le possibilità che la controversia sui commerci tra Usa e Cina si sblocchi nei prossimi giorni sono intervenuti poi alcuni fattori politici delicati se non spinosi. A Washington, la Camera dei Rappresentanti ha approvato in prima lettura e a schiacciante maggioranza (407 contro 1) una legge – l’Uighur Bill – che richiede al presidente di condannare gli abusi di Pechino contro i propri cittadini di fede islamica della regione dello Xinjiang, pretendendo la chiusura di quelli che sono universalmente noti, e denunciati, come campi di internamento per musulmani. La legge, tra l’altro, introduce sanzioni contro il potente segretario del Partito Comunista nello Xinjiang nonchè membro del Politburo, Chen Quanguo.
Pechino, ovviamente, non l’ha presa bene, affidando alla portavoce del ministero degli Estero il compito di manifestare la propria irritazione e di illustrare le possibili conseguenze. “Pensate”, ha dichiarato Hua Chunying, “che se l’America compie queste azioni per danneggiare gli interessi della Cina, noi non faremo altrettanto?”.
È spettato alla voce di alcune fonti governative anonime chiarire a Reuters a quali conseguenze si riferisse la portavoce: la minaccia è che se anche il Senato Usa approverà l’Uighur Bill, e soprattutto se Trump vi apporrà la propria firma conferendo al provvedimento forza di legge, allora Washington potrà dire addio a qualsiasi deal sui commerci.
Analisti sentiti da Reuters hanno confermato che Pechino non è disposta ad alcun compromesso sulla questione degli uiguri – la sua posizione è che sta conducendo una legittima campagna di de-radicalizzazione in una zona piagata dalla sovversione jihadista – e che su questo punto è ancor meno disposta a compromessi che sull’altro nodo rovente delle attuali relazioni sino-americane: la ribellione democratica a Hong Kong.
La prova che la Cina non ammetterà alcuna interferenza sullo Xinjiang, e che se gli Usa tirano troppo la corda il risultato sarà far saltare definitivamente il negoziato sui commerci, l’ha fornita pochi giorni fa il Global Times, quotidiano in lingua inglese che esprime la posizione ufficiale (e intransigente) del regime. Nell’edizione di martedì, il giornale ha voluto precisare che Pechino, qualora l’Uighur Bill diventasse legge in America, potrebbe presto stilare una lista di “entità inaffidabili” – leggi: aziende americane – che sarebbero colpite da sanzioni.
È sullo sfondo di queste tensioni che i negoziatori di entrambi i paesi stanno comunque continuando a trattare in vista della chiusura di quella che, due mesi fa, era stato annunciata come la “fase uno” di un accordo commerciale – un deal interlocutorio, insomma, in cui le due parti avrebbero iniziato a dirimere almeno parte delle controversie sui commerci che li dividono.
Fonti al corrente delle trattative hanno rivelato che i due team negoziali stanno lavorando sui dettagli di questo accordo transitorio, e che uno dei punti in ballo riguarda i dazi Usa sulle merci cinesi che dovrebbero venir meno in cambio dell’impegno cinese di acquistare generosi quantitativi di prodotti agricoli americani.
E se secondo Bloomberg le due parti sarebbero “vicine” ad un’intesa, il Segretario al Commercio Usa Wilbur Ross ha dichiarato l’esatto contrario martedì a CNBC, spiegando che il negoziato procede a livello di sherpa ma che nessun incontro al vertice è previsto a breve per ratificare e ufficializzare i risultati delle trattative. Pertanto, ha fatto sapere Ross, sono assai scarse le possibilità – salvo miracoli all’ultimo minuto – che il giorno 15 non scattino i nuovi dazi americani.
Se così fosse, sarà meglio prepararsi al peggio, visto che la portavoce cinese degli Esteri Hua ha già chiarito che, non appena scatteranno i dazi Usa, partiranno automaticamente le “decisive” contromisure di Pechino.
APPROFONDIMENTI
1 – Pechino si compra anche El Salvador
Sono passati poco più di tre mesi da quando El Salvador ha deciso di tagliare le relazioni diplomatiche con Taiwan e di riconoscere ufficialmente la Repubblica Popolare, e la riconoscenza di Pechino non si è fatta attendere.
Incontrando la settimana scorsa il suo collega cinese Xi Jinping a Pechino, il presidente salvadoregno Nayib Bukele ha annunciato che il Dragone procederà con un “gigantesco” investimento nella cooperazione economica tra i due Paesi.
Tra i progetti infrastrutturali che la Cina realizzerà nel paese centroamericano, si segnalano un nuovo impianto per il trattamento delle acque e uno stadio. Sono previsti inoltre la costruzione di strade, parchi ed edifici commerciali nelle zone balneari come Surf City e Puerto de la Libertad.
Al termine della visita presidenziale, i due Paesi hanno emesso una dichiarazione congiunta nella quale si precisa che El Salvador “aderisce al principio di una sola Cina e rigetta categoricamente qualsiasi atto che vada contro questo principio (e stabilisca) qualsiasi forma di indipendenza per Taiwan”.
2- Tornano le scintille tra Usa e Corea del Nord
Il capodanno in avvicinamento lascia col fiato sospeso gli osservatori del conflitto congelato tra Stati Uniti e Corea del Nord. Su quella scadenza del calendario pende infatti la minaccia di Pyongyang di riprendere, dopo la mezzanotte del 31 dicembre, i test missilistici e nucleari che avevano terrorizzato il mondo tre anni fa. Tutto ciò accadrà inesorabilmente qualora l’amministrazione Trump non si decida di muoversi in anticipo e fare al regime quelle concessioni – in primis, un alleggerimento delle sanzioni internazionali che schiacciano l’economia del Nord da oltre tre lustri – che Kim Jong-un pretende dal suo interlocutore Usa in cambio di una moratoria su test che regge ormai da quasi due anni.
I segnali di questi ultimi giorni, purtroppo, non lasciano ben sperare. La settimana scorsa è iniziata infatti con una minaccia esplicita del Nord formulata attraverso l’agenzia di stampa governativa KCNA: “dipende interamente dagli Usa”, ha scritto l’agenzia, “quale regalo di Natale vuole avere” da noi. Traduzione: se l’America non imprimerà un’accelerazione al negoziato nucleare in corso tra i due paesi che è da mesi su un binario morto, preparatevi ad assistere alla ripresa dei test.
Ci ha pensato il vice ministro degli Esteri Ri Thae Song a fornire una sintetica glossa al comunicato KCNA: “il limite della fine dell’anno” che Kim ha fissato tempo addietro come deadline per ottenere dagli Usa qualcosa di concreto in cambio della moratoria dei test “si sta avvicinando”. Quello di Ri è dunque un grazioso promemoria all’attenzione dell’amministrazione Trump, accusata di tattiche dilatorie che non stanno facendo altro che irritare il regime e spingerlo a contemplare nuove prove di forza.
Chi non sottovaluta queste parole è Joshua Pollack, direttore della Nonproliferation Review ed esperto di Corea del Nord, che al Guardian ricorda che Pyongyang già nel 2017 fece un cenno minaccioso ad un “regalo” in arrivo, che poi si materializzò sotto la forma del lancio di un missile balistico intercontinentale.
Chi deve preoccuparsi di più, a detta di Pollack, è il Giappone, nemico storico del Nord con cui il regime ha avuto recentemente un acceso scambio di vedute. La fosca previsione di Pollack è che il premier nipponico Abe Shinzo potrebbe “fare i conti molto presto con un vero missile balistico (lanciato) sotto il suo naso. (…) Non sarei sorpreso – rimarca l’analista – di vedere un ICBM sorvolare il Giappone proprio il giorno di Natale”.
Queste notizie hanno raggiunto Donald Trump mentre si trovava a Londra per il Summit dei 70 anni dell’Alleanza Atlantica. Ad un giornalista che ha sollecitato un suo commento, il tycoon ha risposto risfoderando l’espressione che coniò su misura di Kim due anni fa nel pieno della crisi tra i due paesi.
“A lui – è stata la risposta del presidente Usa – piace un sacco lanciare missili, vero? È per questo che lo chiamo Uomo Razzo”.
Non pago di aver resuscitato un nomignolo che all’epoca mandò su tutte le furie Kim, che rispose infatti per le rime bollando Trump come un “vecchio rimbambito”, il capo della Casa Bianca ha deciso di indirizzare al suo ex “innamorato” del Nord un messaggio niente affatto sibillino.
“Adesso abbiamo l’esercito più potente su cui abbiamo mai potuto contare, e siamo di gran lunga il Paese più potente del mondo. Speriamo di non doverlo usare (l’esercito), ma se sarà necessario, lo useremo”.
Chi ha familiarità con il temperamento di Kim non sarà sorpreso della sua reazione. Che è arrivata ieri sotto la forma di un test “molto importante” – per usare le parole del comunicato KCNA – avvenuto a Sohae, la località dove il regime effettua i test di lancio dei propri satelliti.
Esperti sentiti al volo da Reuters hanno tuttavia espresso il parere che il test condotto ieri da Pyongyang non sia consistito nel lancio di un missile balistico, ma nel test statico di un motore per missili.
Una provocazione, insomma, che può definirsi innocua solo ignorando l’atmosfera di alta tensione in cui è avvenuto e il rullare dei tamburi di Pyongyang che hanno salutato il test di ieri come una grande conquista del regime “che avrà – leggiamo ancora nel dispaccio KCNA – un effetto importante nel cambiare un’altra volta la (nostra) posizione strategica”.
A Washington, ovviamente, non hanno preso molto bene quel che è successo ieri. Prova ne sia il tweet partito ieri pomeriggio dal profilo di Donald Trump, che si è augurato che Kim non voglia davvero guastare la special relationship che la coppia presidenziale ha saputo costruire in questi due anni.
Kim Jong Un is too smart and has far too much to lose, everything actually, if he acts in a hostile way. He signed a strong Denuclearization Agreement with me in Singapore. He does not want to void his special relationship with the President of the United States or interfere…. https://twitter.com/michellenichols/status/1203419642385043457 …
Michelle Nichols✔@michellenichols
In response to remarks by #NorthKorea’s #UN envoy, @realDonaldTrump said on Saturday he did not think Kim Jong Un wanted to interfere in next year’s #US presidential election and said he would be surprised if Pyongyang acted hostilely. https://reut.rs/2DTmE7C
Insomma, quando la mattina del 25 dicembre ci sveglieremo per accorrere sotto l’albero a scartare i regali di Natale, sarà bene accendere la radio, o la tv, per scoprire se il Babbo Natale venuto da Pyongyang non ha riservato a tutti noi il suo specialissimo pacco dono.
Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.
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