Un congresso per la pace tra governo e ribelli da tenersi in Russia, la stesura di una nuova costituzione ed elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite. È il piano di Vladimir Putin per concludere la guerra civile siriana, illustrato ieri a Sochi al trilaterale che il presidente russo ha avuto con il collega iraniano Hassan Rouhani e quello turco Recep Tayyip Erdogan. Un incontro che ha avuto luogo mentre i rappresentanti delle opposizioni siriane si confrontavano a Riad sull’opportunità o meno di partecipare al tavolo sponsorizzato da Mosca, accettando la realtà amara di aver perso un conflitto risoltosi a favore del regime di Bashar al-Assad e dell’asse della resistenza sciita guidato da Teheran. La soluzione che Putin disegna per uscire dagli oltre sei anni di guerra civile che ha dissanguato la Siria, uccidendo oltre quattrocentomila persone e mettendo in fuga la metà della popolazione, ratifica gli equilibri maturati sul campo. Grazie all’intervento russo del settembre 2015, e alla presenza dei foreign fighter sciiti inquadrati e armati dall’Iran, il presidente Assad ha riconquistato buona parte dei territori perduti. La scommessa dei ribelli è perduta da tempo, anche a causa dell’entrata in scena di un attore, lo Stato islamico, che aveva approfittato del caos per imporre il proprio potere su una vasta porzione del paese.
Gli aerei russi e la ferocia dei miliziani sciiti, cui va aggiunto l’amletismo di Barack Obama, ha permesso alle forze lealiste di riguadagnare l’iniziativa, e di ribaltare a proprio favore le sorti del conflitto. Un aiutino l’ha fornito anche Donald Trump, che ha messo sul piatto l’offensiva anti-jihadista promessa in campagna elettorale. La riconquista di Raqqa, la capitale dello Stato islamico, ha messo la parola fine all’incubo islamista, segnando però un punto a favore dei rivali sciiti: un problema che ora l’amministrazione Usa intende affrontare con pugno duro, sintonizzandosi con quei Paesi sunniti, Arabia Saudita in testa, che vedono come fumo negli occhi la crescente egemonizzazione del Levante da parte dei tradizionali avversari iraniani.
Ma se sotto il profilo militare la partita siriana è chiusa, resta il problema politico: come conciliare il revanscismo del regime con la pretesa delle opposizioni, pur indebolite, di far valere le proprie ragioni. Incontrando Assad lunedì a Sochi, Putin l’ha fatto capire chiaramente: se la guerra “sta per concludersi”, ci vorrà “molto tempo perché si risolva” la partita a scacchi con coloro che hanno combattuto strenuamente per deporre il rais di Damasco. Il piano del Cremlino punta a trovare la quadra. Come recita la dichiarazione congiunta di Putin, Erdogan e Rouhani, ora governo e ribelli devono “partecipare costruttivamente” al congresso che si terrà in data da destinarsi, probabilmente già a dicembre.
Ai reporter, Putin sottolinea che il “popolo siriano dovrà determinare il proprio futuro e concordare sui principi della propria statualità. È ovvio che il processo di riforma non sarà semplice e richiederà compromessi e concessioni da tutti i partecipanti, incluso naturalmente il governo della Siria”. Un monito ad Assad a non forzare la mano, ma anche ai ribelli, esortati a mettere da parte l’ormai sterile odio contro il presidente siriano e a contribuire alla riconciliazione. Il percorso, negli auspici di Putin, è segnato: “il congresso lavorerà alle questioni chiave dell’agenda nazionale della Siria”, e dovrà accordarsi sul “disegno di una cornice per la futura struttura dello stato” e sulla “adozione di una nuova costituzione”. Una volta incassati questi risultati, si potranno – e solo allora – “tenere le elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite”.
Sulla strada tracciata da Putin vi sono però non pochi ostacoli, ben rappresentati dalle posizioni dei due ospiti di Sochi. C’è, anzitutto, la questione dei curdi, che controllano il 20% del territorio siriano e possono vantare la vittoria militare sullo Stato islamico. Per Erdogan, la loro partecipazione al processo di pace rappresenta una “linea rossa” invalicabile. Quanto a Rouhani, la preoccupazione principale è rappresentata dalla presenza americana in Siria, che a Sochi ribadisce essere “inaccettabile”.
Non è detto, infine, che il variegato fronte delle opposizioni giunga ad un accordo sulla formula con cui presentarsi ai colloqui sponsorizzati da Putin. A Riad, l’Alto Comitato per il Negoziato (HNC), che riunisce una trentina di partiti, si è già spaccato sul punto nevralgico: la presenza del governo di Assad, che considerano responsabile di crimini di guerra. Il presidente dell’HNC, Riyad Hijab, si è dimesso la settimana scorsa piuttosto che accettare l’umiliazione di trattare con colui che ha usato armi chimiche contro il popolo siriano. A tentare di mettere una pezza ci sta pensando l’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura, che ha esortato i delegati dell’opposizione ad accordarsi sulla formazione di un “team coeso, rappresentativo, strategicamente saggio ed efficace che rifletta la diversità della società siriana e sia pronto a negoziare senza precondizioni, nello stesso modo in cui ci si aspetta lo faccia il governo”. Il 28 novembre riparte il negoziato di Ginevra. Che Putin, con l’iniziativa di ieri, spera di condizionare a tutto vantaggio della Russia e dei suoi riottosi alleati.