Così si muove la Turchia in Somalia: petrolio, gas e non solo (come dimostra il ruolo dei Servizi segreti turchi nella liberazione di Silvia Romano)
Che la liberazione di Silvia Romano sia avvenuta grazie alla stretta cooperazione con l’intelligence turca del MIT è tutto fuorché sorprendente.
L’episodio è servito semmai a mettere in luce la crescente influenza di Ankara in uno dei paesi più disastrati del mondo, oltre che piagato da una devastante guerriglia jihadista, dove però. la strategia di Recep Tayyip Erdogan è riuscita, attraverso la modulazione di aiuti umanitari ed accordi commerciali e militari, a allungare la propria ombra in una zona come il Corno d’Africa sempre più al centro dei giochi geopolitici e geoeconomici delle grandi e medie potenze.
L’atto di nascita della partnership turco-somalo si può far risalire al lontano 2011, quando l’allora premier di Ankara, visitando una Mogadiscio alle prese con una micidiale carestia, divenne il primo leader politico non africano a mettere piede in quel luogo sfortunato dopo oltre vent’anni.
Impressionato – si dice – dalle condizioni in cui versava il Paese presieduto al tempo da Mohamed Abdullahi Farmajo, Erdogan decise di mettere in moto la sua agenzia per la cooperazione Tika (Turk Isbirligi ve Koordinasyon Idaresi Baskanligi) affidandole il compito di fornire cospicui aiuti umanitari ed avviare progetti di sviluppo e cooperazione.
Fu dunque a colpi di generosi aiuti e investimenti che prese forma quello che molto oggi definiscono il “soft power turco in Somalia”: una simpatia diffusa incarnata dai numerosi funzionari umanitari distaccati nel paese e dalle loro concrete realizzazioni sotto la forma delle strutture di cui il paese africano aveva e ha un disperato bisogno come scuole ed ospedali (si segnala la presenza a Mogadiscio del polo ospedaliero “Recep Tayyip Erdogan”).
Dagli iniziali canali umanitari, gemmò poi una solida rete di interessi turchi in Somalia allargata a vari settori e animata da una fitta schiera di imprenditori che nel frattempo hanno fatto radici e investimenti anche cospicui. I simboli più pregnanti di questa presenza si possono vedere oggi nell’aeroporto internazionale di Mogadiscio e nel porto della capitale, ambedue gestiti da società turche.
Fu presto evidente, tuttavia, come lo slancio turco celasse ben altre mire, e segnatamente la volontà di legare quanto più possibile a sé i destini politici di un Paese che, malgrado la povertà endemica e l’assenza della benché minima parvenza di sicurezza, si è improvvisamente trovato al centro di nuove dinamiche globali capaci di conferire al Corno d’Africa, e dunque alla piccola Somalia che vi si trova dentro, una rilevanza strategica senza precedenti.
Ecco perché Erdogan decise nel 2016 di sigillare la nuova partnership con una mossa di grande peso simbolico come l’apertura a Mogadiscio della più grande ambasciata turca nel continente.
Fu però la cooperazione militare la carta principale scelta da Erdogan per stringere ancora di più questo abbraccio. Dopo una prima fase incentrata sull’addestramento dei militari somali impegnati nella lotta al terrorismo di Al Shabaab, il Sultano di Ankara decise di imprimere un’accelerazione costruendo una grande base militare a Mogadiscio, che oggi offre il segno più tangibile della longa manus turca in Somalia.
Fu una mossa vincente per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché piazzava nel cuore della ribellione islamista un formidabile presidio militare allestito con l’esplicito scopo di raffreddare i bollenti spiriti dei militanti e di palesare la solidarietà e l’assistenza ad un paese in estrema difficoltà.
Ma è impossibile non cogliere anche il valore aggiunto, per Ankara, rappresentato da una base attrezzata per addestrare un numero di soldati somali ben maggiore (si parla di 10 mila uomini formati sinora dagli istruttori di Ankara) di quelli addestrati parallelamente dall’altro potente esercito presente in Somalia, quello Usa (appena duemila soldati somali addestrati), col quale i rapporti bilaterali hanno da tempo virato verso una zona grigia di ambiguità conflittuale.
È questo lo sfondo che illumina gli ultimi sviluppi, in direzione di una sempre maggiore profondità, della partnership turco-somala: dalla nomina due anni fa di un inviato speciale turco per la Somalia incaricato di seguire il delicato dossier del Somaliland, alla proposta turca di dotare l’esercito somalo di una flotta di aerei da guerra.
Ma il deal più pregnante di tutti è certamente il Memorandum of Understanding sull’energia e le risorse minerarie con cui Mogadiscio ha aperto alle esplorazioni petrolifere turche nelle proprie acque territoriali e ad altri progetti congiunti nel settore.
Un accordo siglato nel lontano giugno 2016 in occasione di un altro passaggio del Sultano ma che fu messo frettolosamente nel cassetto a causa del tentato golpe in Turchia del mese successivo, che assorbì tutte le attenzioni del premier e prossimo presidente Erdogan.
A quasi quattro anni di distanza, tuttavia, quel pezzo di carta è stato ripescato dalla presidenza turca che l’ha portato alla ratifica del Parlamento lo scorso 25 gennaio, incentivato dalla legge approvata nello stesso periodo in Somalia con cui è stato aggiornato il quadro regolatorio del settore energetico con l’obiettivo di attirare investimenti stranieri a favore delle compagnie nazionali.
La nuova legge somala, in particolare, affida ad una autorità nuova di zecca, la Somali Petroleum Authority (SPA), le decisioni rilevanti in materia di sfruttamento delle risorse energetiche da sviluppare nell’ambito di Production Sharing Agreements per i cui negoziati la SPA avrà l’ultima parola.
In base ai termini del MoU, che ha una durata rinnovabile di cinque anni e le cui controparti sono rispettivamente il Ministero dell’Energia e delle Risorse Naturali di Ankara e il Ministero somalo del Petrolio e delle Risorse Minerarie, la compagnia statale turca Turkish Petroleum Corporation – la stessa che sta operando nel Mediterraneo Orientale dando del filo da torcere a paesi come Cipro, Grecia e anche Italia – sarà responsabile, insieme alle sue sussidiarie, di condurre le esplorazioni al largo delle coste somale. È ancora ignoto il nome delle compagnie private turche che potranno beneficiare di eventuali scoperte.
Scoperte che per il momento sono ancora tutte sulla carta o, almeno, sui fogli degli studi condotti da società come Seismic Geo convinte che nelle profondità marine della Somalia vi siano considerevoli riserve di petrolio e gas.
La autorità somale, nella fattispecie, hanno annunciato di voler cominciare le esplorazioni in quindici blocchi al largo delle proprie coste dove recenti indagini sismiche hanno lasciato intravedere la presenza di giacimenti petroliferi dal peso equivalente a 30 miliardi di barili.
Non è insomma per i bruscolini che la Turchia ha piantato la propria tenda in Somalia, che per Ankara rappresenta invece, oltre che un ottimo affare, un buon trampolino di lancio per esercitare la propria influenza in una zona strategica del mondo e procurare qualche grattacapo a quei Paesi – a partire dalle rivali monarchie del Golfo e dagli amici-nemici di Washington – che hanno le antenne (e non solo quelle) parimenti puntate in quella direzione.