Il Russiagate, vale la pena ricordarlo mentre l’America sussulta per gli arresti eccellenti voluti dal procuratore speciale Robert Mueller, non concerne solamente le collusioni tra i lobbisti vicini a Donald Trump e l’underworld russo. C’è un’altra, non meno intrigante dimensione dello scandalo che evoca sulle pagine dei principali quotidiani lo spettro del Watergate: le operazioni con cui agenti vicini al Cremlino hanno manipolato il popolatissimo universo di internet e dei social disseminando propaganda incendiaria pro-Trump. Le rivelazioni fatte ieri dal New York Times mettono in luce le proporzioni della diabolica campagna elettorale parallela condotta da individui legati a Vladimir Putin quando erano in corso le primarie repubblicane e democratiche e dopo, durante la corsa a due tra Donald Trump e Hillary Clinton. Il giornale ha avuto accesso alle dichiarazioni che i manager di Facebook, Google e Twitter faranno oggi e domani alle commissioni del Congresso che stanno indagando sul Russiagate. Testimonianze che faranno rabbrividire tutto coloro che credono ancora nell’utopia del web riserva indiana della libertà di espressione che permette a tutti di farsi un’idea sui fatti del mondo senza subire condizionamenti. I numeri che i dipendenti dei Big Tech renderanno noti al parlamento Usa evidenziano la penetrazione raggiunta dalla propaganda sponsorizzata dal Cremlino: 126 milioni gli americani che hanno visto, messo il proprio “like” e condiviso gli 80 mila post acquistati su Facebook da un’azienda, la Internet Research Agency, che fa da schermo ad agenti vicini a Vladimir Putin; 288 milioni di visualizzazioni per i 1,4 milioni di tweet disseminati dai 36 mila bot azionati da uomini vicini al presidente russo, cui vanno aggiunti i cinguettii diffusi sulla piattaforma dai 2.700 account aperti dalla Internet Research Agency; un migliaio di video e 43 ore di contenuti faziosi diffusi su YouTube dai 18 canali aperti da persone “probabilmente legate” alla nomenklatura russa ; 120 mila immagini e post veicolati dal social più gettonato dalla gioventù statunitense, Instagram. Sono cifre da brivido, che mettono a nudo l’estensione del tumore che ha colpito la democrazia americana quando era in ballo la scelta cruciale nella vita pubblica del paese: il nome del presidente. E costringono a riflettere su un elemento che fino ad oggi persone come Marz Zuckerberg, fondatore e Ceo di Facebook, hanno sempre negato: i social sono, né più e né meno degli altri mezzi di comunicazione, uno spazio in cui la politica e le manipolazioni hanno un posto di primo piano. Per la chimera dei social immuni dai vizi del mondo fisico, la campana suona a morto. Il funerale l’ha celebrato Putin.
Il Russiagate uccide il mito di internet
Pubblicato il 03/11/2017 - Il Friuli
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