Le scene deplorevoli viste domenica in Catalogna erano un copione già scritto. Esito prevedibile di uno scontro istituzionale senza precedenti, il muro contro muro di Barcellona e Madrid che si poteva, se fosse prevalsa la ragionevolezza, evitare. Mentre la capitale catalana ha deciso di celebrare comunque il referendum che i partiti indipendentisti sognavano da anni, spingendo i cittadini nelle braccia della Guardia Civil in assetto antisommossa, quella spagnola ha perseguito irremovibile la volontà di far rispettare la Costituzione, che parla di “indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oltre ottocento feriti, e l’immagine di un Paese irrimediabilmente compromessa. A perdere di più, in questo conflitto consumatosi anche su un piano simbolico, è stato il primo ministro Mariano Rajoy. Il quale, messo in un angolo dalla pertinacia dei secessionisti, è stato costretto a impedire con la forza un’espressione democratica, senza peraltro riuscirci. E pensare che, in punta di diritto, la ragione era dalla sua parte. Come spiega Manlio Frigo, docente di diritto Internazionale all’Università di Milano, l’appello catalano al principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli non può essere applicato in questa circostanza. La giurisprudenza consolidata, spiega il professore, stabilisce come quel principio valga esclusivamente per i popoli “che si trovino in tre situazioni specifiche: i popoli soggetti a dominio coloniale, i popoli il cui territorio è stato occupato da uno Stato straniero e i gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo”. Nulla di tutto ciò si verifica in Catalogna, Comunità autonoma che gode di ampi poteri anche se ambisce ad estenderli ulteriormente. Ecco, dunque, il punto. Che è tutto politico. La tragica frattura si verifica su rivendicazioni che potevano e dovevano essere risolte sul piano negoziale. Le logiche della politica hanno spinto i catalani ad alzare la posta, spingendosi fino al ricatto di un referendum senza quorum, e hanno indotto un governo sordo e ottuso a chiudere la porta a qualsiasi prospettiva di ricomposizione. Errori di valutazione da ambo le parti che devono, a questo punto, rientrare nel sentiero di un dialogo da riaprire quanto prima. Barcellona potrà portare al mulino della discussione l’acqua di una ribellione celebratasi in diretta mondiale. Potrà mettere sul tavolo il 90% di consensi raccolti tra gli oltre due milioni di cittadini che si stima abbiano partecipato ad un voto realizzatosi, va detto, senza le minime condizioni di legalità (schede senza timbri, nessuna lista di elettori, collocazione anarchica dei seggi, niente osservatori dell’opposizione, nessuna commissione indipendente). Dal canto suo, Madrid potrà far valere le ragioni di una collettività che teme più di ogni altra cosa la disgregazione dello Stato. Uno spettro che potrà essere evitato solo venendo incontro alle richieste, si spera formulate correttamente, dei catalani.
Referendum catalano: tutti gli errori delle parti in causa
Pubblicato il 03/10/2017 - Messaggero Veneto
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