Tutti i dossier fra energia e tlc di cui si discute negli Usa. Il Taccuino di Marco Orioles
LA RETE 5G LIGADO? MEGLIO UN’ALTERNATIVA SUSSIDIATA DALLO STATO. PAROLA DI GARY J. SCHMITT (AEI)
Negli Usa come altrove, le deliberazioni delle autorità indipendenti sono capaci di generare polemiche come se non più di quelle prese dalle istituzioni e dai politici.
Questo è sicuramente il caso della decisione con cui due settimane fa la Federal Communications Commission americana ha approvato all’unanimità il progetto di Ligado di utilizzare lo spettro della banda L a 1,6 GHz per realizzare negli States una rete 5G terrestre a bassa potenza.
Una decisione che ha mandato in brodo di giuggiole mezzo establishment trumpiano, felice per lo scampato pericolo giallo, ma che ha innescato una rivolta – che continua a montare ed espandersi – in seno ad una lunga serie di istituzioni e agenzie federali che comprende ministeri chiave come quello della Difesa, dell’Interno, del Commercio, dell’Energia, dei Trasporti (cui va aggiunto lo stesso dicastero presieduto da Barr) ma anche Nasa, Guardia Costiera, National Science Foundation e così via.
Più che insoddisfatti della decisione della FCC, questi soggetti sono pronti a sfidarla direttamente nel merito, con particolare riguardo all’affermazione della stessa agenzia secondo cui il progetto di Ligado – oltre a promuovere “un uso più efficiente ed efficace delle risorse dello spettro della nostra nazione” – assicurerà “che le operazioni adiacenti della banda, incluso il Global Positioning System (GPS), siano protette da interferenze dannose”.
Ma è proprio questa l’eventualità cui, a detta dei detrattori di Ligado, l’America andrà incontro se a quel progetto sarà consentito di procedere e se non sortiranno effetti controiniziative come la levata di scudi delle intere Commissioni Difesa di Camera e Senato, che in un editoriale a firma collettiva dal titolo quanto mai eloquente (“La FCC e Ligado stanno mettendo a repentaglio il GPS e, con esso, la nostra economia e la sicurezza nazionale”) hanno annunciato la prossima resistenza.
Ma perché tanto baccano? A ricapitolare i motivi della mobilitazione contro Ligado e il suo 5G è stato pochi giorni fa, dalle colonne di The National Interest, un analista dell’American Enterprise Institute molto noto nella comunità di osservatori e commentatori delle questioni della difesa e della politica estera: Gary J. Schmitt.
Presentata sotto un titolo che è tutto un programma (“Bad Signal?), la controargomentazione di Schmitt parte dallo stesso punto evidenziato dagli altri: contrariamente alle convinzioni della FCC, la rete 5G di Ligado provocherà seri problemi al segnale GPS tanto in ambito militare quanto in quello commerciale.
E il problema, evidenzia l’analista, non riguarderà nemmeno il solo segnale GPS, ma anche quei segnali trasmessi da satellite che viaggiano su frequenze attigue e sono fondamentali per attività come le previsioni del tempo e la comunicazione specializzata.
“L’impatto potenziale”, scrive Schmitt, potrebbe essere a tal punto “pervasivo” da minare in un colpo solo “la capacità delle forze armate di condurre le operazioni militari, quella di far arrivare i treni in orario, quella di permettere agli operatori delle emergenze di fare efficacemente il loro lavoro (fino) a quella degli agricoltori di ottenere i dati di cui hanno bisogno per lavorare nei loro campi”.
C’è una logica stringente dietro la critica di Schmitt e di tutti gli altri, ed è che “in quanto nazione siamo diventati talmente dipendenti da” sistemi come il GPS che tanto l’economia, quanto le stesse forze armate, non potrebbero operare normalmente in assenza della “disponibilità ininterrotta e senza interferenze di questo flusso di dati”.
Il problema di Ligado (e della FCC) peraltro risulta aggravato, agli occhi di Schmitt, dalla stessa ammissione dell’azienda che il problema è lungi dall’essere una paranoia, e dal suo conseguente impegno, in caso di approvazione del proprio progetto, a sostituire gratuitamente con attrezzature nuove di zecca e a prova di interferenze gli apparati governativi e militari che potrebbero risentirne, ovvero di effettuare le riparazioni necessarie agli impianti esistenti per scongiurare ogni evento avverso.
Anche questa però per Schmitt non può considerarsi una soluzione praticabile o ragionevole, e per due motivi molto semplici.
In primo luogo, perchè può anche andare bene mettere in sicurezza con opportuni interventi le comunicazioni del governo e dell’esercito, ma che dire dei milioni e milioni di dispositivi GPS privati che sarebbero privi di qualsiasi paracadute?
E poi c’è il problema – che Schmitt compendia in tre parole: tempi, costi e rischi – derivante dalla lunga, complessa e onerosa operazione che Ligado dovrebbe approntare per sostituire o modificare le attrezzature del Pentagono e fare i necessari test tanto su quelle nuove quanto su quelle adattate.
“La scala del problema”, osserva Schmitt, “sarebbe immensa visto che praticamente ogni piattaforma o sistema militare è in un modo o nell’altro connesso al GPS”.
Ma c’è un’altra questione legata al 5G di Ligado che non convince Schmitt, e rimanda alla stessa soluzione di compromesso ventilata dalla compagnia, dettasi pronta ad abbassare la potenza del segnale della sua costruenda rete 5G e rinunciare nel contempo all’uso delle frequenze più vicine a quelle del GPS.
Ma questa sarebbe una mossa del tutto inadeguata, sottolinea Schmitt ricordando che tutti i ricevitori GPS sono stati costruiti nella presunzione che non vi siano altri segnali prossimi alla sua banda in grado di interferire con il proprio. A venir meno, insomma, sarebbe la stessa fiducia nelle capacità di un sistema minato dall’esistenza di un sistema concorrente che opera pericolosamente vicino al suo raggio di azione.
La conclusione di Schmitt è dunque che il 5G Ligado non s’ha da fare. Di qui il suo auspicio che il Segretario alla Difesa intervenga quanto prima invocando il suo dovere, contemplato dalle stesse leggi in vigore negli Usa, di impedire qualsiasi azione del governo che “possa influenzare negativamente il potenziale militare del GPS”.
Ma esiste un’altra strada per tagliare quella di Ligado, e la si ritrova nello stesso statuto della FCC, a cui qualunque soggetto che si oppone ad un progetto governativo di competenza del FCC può rivolgersi presentando informazioni e argomenti che dimostrino come il progetto in questione sia “in conflitto con l’interesse pubblico”. E l’iniziativa dei deputati e senatori delle rispettive commissioni Difesa è solo la prima salva di una battaglia che si preannuncia lunga e sanguinosa.
Per quanto possa apparire paradossale, la conclusione di Schmitt è che, al varo di un progetto il cui vantaggio – disporre al più presto di una rete 5G senza caratteristiche cinesi – si abbinerebbe a costi e rischi monumentali, sarebbe preferibile l’intervento diretto dello Stato sotto la forma di sussidi o altri contributi a favore di attori in grado di portare a casa lo stesso risultato ma senza far danni.
Per dirla con Schmitt, dal punto di vista della sicurezza nazionale una rete 5G parzialmente o interamente sussidiata dal governo è da ritenersi “a safer course than this apparent roll of the dice”.
CHI DETTA LEGGE NEL SETTORE GLOBALE DEL PETROLIO SE NON LA CASA BIANCA? IL RETROSCENA DI REUTERS
Due passaggi chiave in rapida sequenza ma di segno opposto hanno scandito nelle settimane scorse la drammatica crisi del settore petrolifero che stiamo a tutt’oggi vivendo.
C’è stato, ad inizio marzo, il collasso del cartello cosiddetto OPEC+ e la conseguente decisione dell’Arabia Saudita di aumentare la produzione di 12,3 milioni di barili nella cornice di una sanguinosa guerra dei prezzi con il rivale di sempre: la Russia.
Tre settimane dopo è tuttavia sopraggiunta un’intesa tra quegli stessi produttori nel contesto del summit dei ministri dell’Energia del G20 tenutosi virtualmente a Riad con il proposito di invertire la marcia e tagliare drasticamente le estrazioni nel tentativo di salvare un settore che stava boccheggiando, per usare un eufemismo, a causa della pandemia da Covid-19.
Come molti giornali, incluso questo, scrissero all’epoca, dietro l’accordo di Riad – che tolse dal mercato il 10% circa della produzione, ossia quasi 10 milioni di barili- ci fu lo zampino di Donald Trump che, riferirono puntuali le cronache, alla vigilia del vertice aveva alzato la cornetta due volte per chiamare i due leader alla cui volontà erano legate le sorti di un eventuale accordo: il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman e il presidente russo Vladimir Putin.
Le rivelazioni di stampa di allora, in realtà, non furono esattamente tali, visto che fu lo stesso Trump a vantarsi pubblicamente – a partire dal suo canale preferito, Twitter – di avere svolto un ruolo cruciale nelle delicate trattative tra i due uomini forti dell’oro nero e dunque nel convincerli a congelare nei rispettivi giacimenti 2,5 milioni di barili pro capite:
Se però Reuters ha deciso venerdì di raccontare i retroscena di quell’accordo non è certo per sottolineare quel che già sapevamo, ossia che si è trattato – come scrive l’agenzia britannica – di “una vittoria diplomatica della Casa Bianca”.
Quello di Reuters è invece un vero e proprio scoop che svela con dettagli imbarazzanti il metodo a cui è ricorso Trump per piegare l’uomo forte di Riad: l’intimidazione.
Con l’ausilio di quattro fonti al corrente dei contenuti della conversazione telefonica tra The Donald e Mbs, Reuters ci racconta come, ad un certo punto del colloquio, il presidente Usa abbia sfoderato la più spaventosa delle minacce: se l’Arabia Saudita non avesse fatto la sua parte nella riunione del 12 aprile per raggiungere il risultato desiderato dall’America, ossia un taglio netto della produzione globale, l’alleanza militare che da 75 anni lega la superpotenza a stelle e strisce al Regno dei Saud sarebbe stata kaputt.
Trump, più precisamente, avrebbe detto al suo interlocutore che non avrebbe alzato un dito per impedire al Senato di votare a favore di una proposta di legge presentata una settimana prima dai senatori repubblicani Kevin Cramer e Dan Sullivan, due dei tanti col dente avvelenato nei confronti dei sauditi per la guerra del petrolio appena scoppiata che minacciava di mettere in ginocchio i produttori Usa.
La proposta di legge in questione – che secondo Reuters avrebbe incontrato il favore di molti colleghi dei proponenti parimenti adirati con i sauditi e inquieti per le sorti di un’industria chiave del paese – avrebbe disposto, in caso di approvazione, il ritiro immediato dell’intero dispositivo militare Usa schierato a migliaia di chilometri di distanza a difesa del Regno.
Questo, almeno, è quanto sarebbe successo qualora Riad non avesse tagliato seduta stante la propria produzione e se naturalmente il provvedimento dei due senatori repubblicani avesse ottenuto i voti necessari – eventualità che Trump chiarì a Mbs di non essere in grado di evitare.
Tale e tanto sarebbe stato lo spavento del principe che, stando a una fonte americana che è stata successivamente informata dell’accaduto, avrebbe chiesto ai suoi consiglieri di uscire dalla stanza per permettergli di proseguire la telefonata in assoluta solitudine.
Ma la vicenda non finisce qui, perché secondo Reuters il medesimo messaggio è stato trasmesso ai sauditi attraverso più canali diplomatici e con il tenore ben sintetizzato nella frase di un “senior U.S. official” che si è sbott0nato con l’agenzia britannica: “Stiamo difendendo la vostra industria, mentre voi state distruggendo le nostre”.
In questa tempesta perfetta, va debitamente evidenziato il ruolo del senatore Cramer. C’era infatti anche la sua firma tra le 13 poste in calce ad una lettera che altrettanti senatori repubblicani avevano trasmesso il 16 marzo allo stesso Mbs per ricordargli che l’alleanza strategica con gli Usa non è gratis.
Ma le iniziative dei senatori semplici non finirono qui. Due giorni dopo, lo stesso gruppo, con l’aggiunta del più noto Ted Cruz, telefonarono all’ambasciatrice saudita negli Usa, la principessa Reema bint Bandar bin Sultan, dando vita a quella che Cramer definì una conversazione “brutale” nella quale ciascun parlamentare presentò le proprie rimostranze per una condotta che stava danneggiando le compagnie petrolifere ubicate negli Stati di appartenenza dei senatori.
Anche questa chiacchierata si concluse con una minaccia: se non fate quel che vi diciamo, considerate concluso il sostegno militare (indiretto) Usa alla guerra che i sauditi e i loro alleati emiratini stanno conducendo dal 2015 nel vicino Yemen.
Che le cose siano andate effettivamente in questo modo lo conferma indirettamente la risposta che mercoledì scorso Trump ha dato ad un reporter di Reuters che gli aveva chiesto se avesse effettivamente palesato a Mbs per telefono la volontà di cestinare l’alleanza con i sauditi:
“Non ho avuto bisogno di dirglielo”.