Le ultime tendenze sul petrolio e il ruolo diversificato di Usa e Cina nel rapporto di luglio “Geopolitica dell’Energia” del Centro Europa Ricerche (Cer) curato da Demostenes Floros
Le cifre fornite dall’Oil Market Report pubblicato dall’International Energy Agency lo scorso 10 luglio mostrano un effetto diretto del Covid-19: il forte calo della domanda globale di petrolio, diminuita di 16.400.000 b/g nel II trimestre 2020 (anno su anno) e stimata in ulteriore calo di 7.900.000 b/g nel trimestre successivo.
E’ uno dei dati forniti dal rapporto di luglio “Geopolitica dell’Energia” del Centro Europa Ricerche (Cer) curato da Demostenes Floros che ricorda un altro record negativo: essendo calata di 2.400.000 b/g a giugno, l’offerta globale di petrolio ha toccato il suo minimo da 9 anni, ad un livello di circa 86.900.000 b/g, per l’effetto combinato di una minore offerta che da aprile ad oggi ha toccato i 14.000.000 b/g.
Un altro indicatore di questa situazione riguarda le scorte commerciali dell’OCSE, che a titolo cautelativo sono incrementate di 81.700.000 barili in maggio (mese su mese), per un totale di 3.216.000.000 barili.
Se c’è un paese produttore che ha patito di più la pandemia sono gli Usa: secondo le statistiche stilate dal Drilling Productivity Report divulgato dall’Energy Information Administration, la produzione di greggio non convenzionale USA è prevista diminuire di ulteriori 56.000 b/g.
Tutto questo arriva dopo che l’output di greggio statunitense ha subito un vero e proprio crollo rispetto al precedente picco di 13.100.000 b/g toccato il 13 marzo 2020: al 12 giugno 2020 negli USA si pompavano solo 10.500.000 b/g, cifra cui va aggiunto un parziale recupero di 500.000 b/g dal 19 giugno al 3 luglio 2020
Un altro modo per contemplare la crisi del settore negli States è guardare al numero di trivelle attualmente attive nel Paese.
Secondo le statistiche divulgate da Baker Hughes il 10 luglio 2020, esse erano 258, di cui 181 (70,2%) sono petrolifere e 75 gasiere (29,1%), più 2 miste (0,7%). Si tratta di 21 in meno rispetto a quelle rilevate il 12 giugno 2020, con un calo di ben 700 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Un altro effetto della crisi in corso si può riscontrare guardando alle importazioni di greggio degli Stati Uniti d’America, che nell’aprile sono state 5.520.000 b/g, in calo dunque di 776.000 b/g rispetto ai 6.296.000 b/g del mede precedente. Nei primi 4 mesi dell’anno corrente, la media delle importazioni USA mensili è stata di 6.186.000 b/g, a fronte dei 6.795.000 b/g nel 2019, in diminuzione rispetto ai 7.768.000 b/g nel 2018 e ai 7.969.000 b/g nel 2017.
Chi invece sembra essere uscita dalle secche di questo periodo e aver calcato il piede dell’acceleratore è la Cina, ossia un Paese dove la produzione sta riprendendo a pieno ritmo e le conseguenze si possono osservare anche sul mercato del greggio.
In questo periodo infatti Pechino, avendo importato a giugni 11.930.000 b/g, è diventato di fatto il maggiore importatore di greggio al mondo, con un aumento rispetto ai livelli dell’anno precedente di ben 2.400.000 b/g a fronte di una crescita della domanda di “oro nero” pari a 820.000 b/g (mese su mese).
A tal proposito, il rapporto rileva che quest’ultimo record è stato ottenuto grazie ad un processo di diversificazione dei fornitori che ha visto maggiormente coinvolti produttori come il Brasile e l’Angola. Si segnala inoltre il sorpasso dell’import di greggio dall’Arabia Saudita, che ha raggiunto il massimo storico di 2.160.000 b/g, rispetto le forniture dalla Federazione Russa, che sono comunque salite a loro volta di 1.820.000 b/g.