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Perché l’Italia non deve snobbare le Vie della Seta cinesi. Parla Costa (ex ministro nel governo Prodi)

Pubblicato il 13/03/2019 - Start Magazine

“La Bri è il nuovo volto della politica estera della Cina. Di un paese cioè che presto supererà in termini economici gli Stati Uniti. Una potenza mondiale con la quale tutti dovranno fare i conti prima o poi”. Parola di Paolo Costa, ex ministro dei Lavori pubblici nel governo Prodi, ex sindaco di Venezia e soprattutto presidente per dieci anni (2008-2017) dell’Autorità portuale del capoluogo veneto

 

In questi giorni di fremente discussione sulla “Belt and Road Initiative” (Bri), le nuove Vie della Seta cinesi che tanto dibattito suscitano nel nostro Paese, è probabilmente necessario fare un passo indietro. Riannodare i fili di un dibattito ormai polarizzato e partire dalle origini di questo maxi progetto infrastrutturale che affida all’Italia un ruolo nevralgico e ai suoi porti la missione di essere altrettanti terminali di quel corridoio marittimo in via di realizzazione che, secondo il disegno di Pechino, dovrà collegare l’Europa all’Asia.

Favorita dall’opacità in cui sono immerse le trattative tra il governo gialloverde e quello cinese, molta confusione avvolge la questione dei porti italiani e della Bri. Una confusione ben evidenziata dalla città, Trieste, che – secondo le anticipazioni uscite sui media del Memorandum of Understanding in lavorazione al Mise – sarà oggetto di specifici investimenti cinesi.

Eppure, come spiega a Start Magazine una persona che questo progetto lo ha seguito sin dalla sua gestazione, l’ex ministro dei Lavori pubblici e nel governo Prodi, ex sindaco di Venezia e soprattutto presidente per dieci anni (2008-2017) dell’Autorità portuale del capoluogo veneto, Paolo Costa, la Bri in origine doveva passare per Venezia. Questa, almeno, era l’ipotesi caldeggiata dai cinesi agli albori della Bri. Un’ipotesi su cui hanno lavorato sia i precedenti governi, sia l’autorità presieduta da Costa, e che era persino arrivata allo stadio progettuale. Ma che poi, a causa di un veto, si è arenata.

Allora Costa, partiamo dalla Bri. Di cosa si tratta, dal suo punto di vista?

Ci sono due livelli di discussione sulla Bri. Uno è quello di questi giorni e non ha nulla a che vedere con il tema originario. Una discussione che rimanda allo scontro in atto tra Stati Uniti e Cina. Due potenze entrambe tendenti a costruire un predominio mondiale sulla base di rapporti bilaterali. Questo fa leggere tutta l’attività sulla via della Seta in chiave geopolitica: tu sei della mia parrocchia, io no, eccetera. Cosa che fa perdere di vista il secondo e più importante livello di discussione, che riguarda la via della Seta vera e propria. Cos’è dunque la via della Seta?

Ce lo spieghi.

La Bri è il nuovo volto della politica estera della Cina. Di un paese cioè che presto supererà in termini economici gli Stati Uniti. Una potenza mondiale con la quale tutti dovranno fare i conti prima o poi. Di qui l’importanza della Bri, che si configura come una strategia politica, dichiarata e definita, di lungo periodo. Una strategia complessiva che concerne i rapporti con tutta una serie di Paesi – le Repubbliche ex sovietiche, il Pakistan, il Vietnam, ecc. – che sorgono lungo il tracciato della via della Seta. Il perno di tale strategia sono le infrastrutture, nel senso di trasporti, logistica e investimenti portuali. Queste infrastrutture serviranno a valorizzare una relazione, quella Europa-Asia, che in questo momento è la più importante, è allo stesso livello della relazione trans-pacifica e nettamente superiore rispetto a quella transatlantica. E qui veniamo alla mappa della Bri, che pone un problema per noi.

Quale?

Nella mappa originale della via della Seta marittima c’erano il Pireo e Venezia. Il governo dell’epoca ha lavorato sull’ipotesi Venezia e anche io, come presidente dell’Autorità portuale di Venezia, ci ho lavorato dal 2013. E di lavoro da fare ce n’era, perché per avere una rotta di supply-chain globale bisogna costruire i luoghi in cui le navi arrivano e scaricano. Una nave grande, con 18 mila container, contiene – tanto per capirci – merci sufficienti per riempire un treno fermo tra Parigi e Anversa. Sono dimensioni che noi in Italia non abbiamo mai trattato nei nostri porti. Venezia era la soluzione ideale.

Perché?

Anzitutto, perché aveva pronta l’ex area di Marghera, con i suoi 1.500 ettari. Aveva poi tutti i requisiti, compresi degli ottimi collegamenti ferroviari che sono quelli della Marghera degli anni ’60. I cinesi non a caso hanno studiato accuratamente il dossier e ci hanno cercato. Sono stati loro a cercarci, questo lo vorrei sottolineare. I cinesi hanno anche vinto successivamente la gara di progettazione per il porto, un progetto che è stato completato e che ora giace nel cassetto dell’autorità portuale di Venezia. Ma l’Italia ha detto no.

Chi ha detto no?

È stato, a quanto ne so, il ministro Graziano Delrio. Il premier Gentiloni era interessato e disponibile, ma le competenze sui trasporti erano di Delrio, che ha ritenuto di dire no, forse spinto da persone che propendevano per Trieste. Sta di fatto che con questo gioco tra chi diceva Venezia e chi diceva Trieste, alla fine non abbiamo deciso nulla. Abbiamo perso così l’occasione della primogenitura: avremmo potuto essere i padroni del traffico Europa-Asia.

E invece?

E invece in questo momento la via della Seta termina al Pireo. L’idea di un collegamento Pireo-Venezia, che era nelle intenzioni dei cinesi, è saltata. Le navi adesso dal Pireo salpano per dirigersi verso Barcellona o Valencia. Venezia sta lavorando come un terminale secondario del Pireo.

Sta di fatto che ora l’Italia torna in campo e mette a disposizione, a quanto pare, il porto di Trieste. Di Trieste terminale della via della Seta marittima cosa ci dice?

L’ipotesi Trieste presenta alcuni vantaggi. Il suo porto ha dei fondali più profondi degli altri porti, anche se non sono sufficienti per le grandissime navi e dunque sarebbero necessari dei lavori. Ha anche buoni collegamenti ferroviari, sebbene non abbia molto spazio a terra. Non dimentichiamo però che sull’arco dell’Alto Adriatico insistono altri porti: Koper (Capodistria), che è l’unico porto sloveno e sta marciando molto bene, e Rijeka (Fiume).

Cosa direbbe a chi teme che asset strategici come i porti finiscano in mani cinesi?

I terminali portuali italiani sono tutti in concessione. Non c’è nessuno che se li prende e li porta via. I terminali più importanti peraltro sono già nelle mani di PSA, che è di Singapore.

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