Rivendicate due giorni dopo dallo Stato Islamico (Is), le stragi di Pasqua in Sri Lanka arrivano apparentemente come un fulmine al ciel sereno. Fino alla settimana scorsa, infatti, la narrazione prevalente parlava di una sconfitta umiliante per il gruppo jihadista per mano della coalizione internazionale a guida Usa, che il mese scorso ha riconquistato l’ultimo lembo del califfato consegnandolo alla Storia. Lo stesso Donald Trump ha più volte proclamato la vittoria sulle bandiere nere, annunciando già a dicembre il ritiro del dispositivo militare schierato in Siria.
Ora, dopo le bombe nelle chiese e negli hotel dello Sri Lanka, e un bilancio delle vittime spaventoso, il mondo ripiomba nell’incubo. E riscopre la minaccia rappresentata da un fanatismo capace di colpire ovunque, con modalità stupefacenti e un’efficacia da brividi.
C’è di che riflettere, insomma, su quel che è successo domenica. Per trarre delle prime, provvisorie lezioni dal sanguinoso attacco jihadista, Start Magazine si è rivolto a Francesco Marone, ricercatore dell’Ispi di Milano e membro dell’Osservatorio sulla Radicalizzazione e il Terrorismo Internazionale. A lui il compito di decodificare questo avvenimento e di farci capire se esso annunci tempi bui a venire.
Federico Marone, alla fine l’Is ha messo la propria firma sugli attentati.
Sì. La rivendicazione è arrivata relativamente tardi, perché di solito l’Is impiega meno tempo a rivendicare le proprie azioni. È arrivata inoltre in maniera disorganica: è stato diffuso prima il comunicato ufficiale in arabo, poi le foto, quindi il video. La procedura di solito è più scorrevole. La rivendicazione comunque ha fatto chiarezza perché fino a quel momento era difficile interpretare questo attacco, essendo avvenuto in un Paese che non è associato all’estremismo islamico. Il punto fondamentale, adesso, è capire esattamente quale sia stato il ruolo dell’Is nell’organizzazione dell’attacco.
Questo è un punto fondamentale perché, come è stato sottolineato, il gruppo locale che è considerato responsabile degli attentati di domenica non può avere agito da solo.
Sicuramente l’Is ha avuto contatti con questo gruppo. Si tenga conto che tutti gli attentatori e tutte le persone arrestate dopo l’attacco erano srilankesi. Con loro l’Is deve necessariamente avere avuto contatti, diretti o indiretti, altrimenti non avrebbe ricevuto le foto e il video degli autori dell’attacco con il loro giuramento di fedeltà. Sul ruolo effettivo dell’Is non possiamo però ancora pronunciarci. Non è chiara la divisione del lavoro tra l’Is e questo piccolo gruppo che peraltro era noto più per vandalismo che per terrorismo. Si tratta di capire chi ha contattato chi. Bisogna chiarire, ad esempio, se il gruppo locale abbia contattato l’Is chiedendo assistenza in termini di materiale esplosivo, competenze, finanziamenti. D’altra parte, è evidente che un gruppo così piccolo da solo non sarebbe mai riuscito ad organizzare un attentato così catastrofico, ma anche complesso, con attacchi simultanei e una competenza tecnica notevole.
La collaborazione tra un gruppo autoctono e la centrale del terrore siro-irachena non sarebbe una novità. La fusione tra jihad globale e locale è anzi la normalità, motivata di solito da una convergenza d’interessi.
È proprio così. Il gruppo locale ha tutto l’interesse a ricevere il sostegno e l’assistenza di una formazione che, per quanto abbia ricevuto duri colpi, rimane quella più nota in assoluto del jihadismo mondiale. Dal canto suo, invece, l’Is ha tutto l’interesse ad approfittare della disponibilità di un gruppo locale, di persone del posto che conoscono i luoghi, la lingua, e destano meno sospetti. Avere una base sul posto è un punto a favore dell’Is. Questo peraltro è uno dei punti interessanti di questa vicenda: l’Is non ha mai avuto una base nello Sri Lanka, paese che non è associato allo jihadismo. Si tenga conto inoltre che in Sri Lanka la popolazione islamica è minoritaria: che una minoranza abbia attaccato un’altra minoranza, quella cristiana, è un fatto insolito per il Paese, che fa senz’altro riflettere.
Oltre che per il luogo, finora risparmiato dalla furia jihadista, e per gli obiettivi, luoghi di culto cristiani e hotel frequentati da stranieri, gli attacchi di domenica colpiscono per le modalità, la scala e il bilancio delle vittime: siamo di fronte a quello che potremmo definire un “mega-attentato”.
È senz’altro così. Attacchi di questo tipo in Europa sarebbero improbabili. Il livello di raffinatezza dell’antiterrorismo dei paesi europei non consentirebbe di realizzare attacchi così grandi, con decine e decine di persone coinvolte. Con qualche eccezione, come il Bataclan, gli attacchi realizzati in Europa sono stati tutti messi a segno da singoli o piccoli gruppi che non avevano contatti diretti con l’Is e soprattutto non ricevevano ordini. Lo Sri Lanka è stato scelto probabilmente anche per realizzare un attacco in grande stile che altrove non sarebbe stato possibile.
L’unica conclusione certa che possiamo trarre è che l’Is rimane una minaccia. La vittoria sul califfato ci ha forse tratto in inganno?
Si è parlato molto della sconfitta territoriale dell’Is. Trump in particolare l’ha enfatizzata perché gli serviva per giustificare il ritiro delle truppe Usa dalla Siria. Però, come dimostrano gli attentati di Pasqua, il gruppo è ancora attivo, ed è tornato a essere simile a ciò che era prima del 2014, ossia prima di diventare uno Stato. I fatti dello Sri Lanka dimostrano che l’Is è ancora capace di organizzare attacchi anche fuori dal Medio Oriente, coinvolgendo Paesi che finora non erano stati toccati dalla minaccia.
Quel che è successo in Sri Lanka rappresenta un monito anche per l’Europa?
Non c’è dubbio. Gli attentati di domenica dimostrano che l’Is rimane una minaccia globale capace di colpire anche molto lontano dalla sua base in Siria ed Iraq. Per quanto riguarda l’Europa, i numeri mostrano in verità che, a partire dal 2017, il numero degli attacchi jihadisti ispirati o motivati dall’Is è in flessione. Ma c’è un elemento che non può farci stare tranquilli.
Quale?
Mi riferisco ai foreign fighters. Molti dei cinque-seimila musulmani europei partiti per andare a combattere in Siria sono morti. Ma una parte è sopravvissuta, alcuni – circa un terzo – sono già tornati, altri sono ancora nascosti in Siria ed Iraq o sono fuggiti in altri Paesi. Questa sicuramente è una fonte di preoccupazione: si tratta di persone pericolose, che hanno imparato a combattere e sono diventate soldati di un esercito. Hanno inoltre acquisito uno status, sono diventati dei veterani: anche se non dovessero partecipare personalmente ad attacchi, potrebbero comunque ispirarli o motivarli. C’è da dire che la preoccupazione era maggiore un paio di anni fa: allora si temeva infatti un ritorno di massa in Europa, e un’ondata di attacchi in stile Bataclan. Oggi la preoccupazione non è più così acuta, ma il rischio c’è ancora. Stiamo parlando infatti di centinaia di persone che, in parte, non hanno abbandonato la causa jihadista e potrebbero tornare qui con intenzioni tutt’altro che benevole.