Dopo le prime schermaglie del 27 settembre, e un tentativo di cessate il fuoco mediato dal Cremlino l’11 ottobre, le forze azere e armene sono tornate a combattersi per il Nagorno-Karabakh mettendo in fuga decine di migliaia di persone. Il conflitto congelato che dal 1994 grava come un’ombra sul Caucaso è dunque tornato a deflagrare in campo aperto. La posta in gioco è il controllo del Nagorno-Karabakh, un’enclave azera a maggioranza armena il cui controllo un quarto di secolo fa l’Armenia ha sottratto all’Azerbaijan in una guerra sanguinosa durata tre anni e costata più di 30 mila morti. Le circostanze hanno voluto che le ostilità si riaprissero ora per via di una concomitanza di fattori. Il primo focolaio di questa crisi è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che in questo momento di attivismo a tutto azimut non si è lasciato sfuggire l’occasione di aprire un fronte con il vecchio nemico armeno. Ankara sta aiutando attivamente l’Azerbaijan non solo da un punto di vista diplomatico, avallando le sue ragioni in tutte le sedi, ma con un sostegni più che concreto fatto di di droni, aerei da caccia e l’arma più devastante di tutte: centinaia di reduci della guerra civile siriana assoldati in qualità di mercenari. Il conflitto preoccupa le cancellerie europee per questi motivi, ma anche per il concomitante completamento del Corridoio meridionale del Gas, il famoso Tap, una delle cui condutture scorre a non poca distanza dalla zona dei combattimenti. La posta in gioco è dunque altissima ed è per questo che la diplomazia non si ferma un istante. Per arrestare lo scorrimento di sangue, Mosca ha proposto l’invio di osservatori militari da porre lungo la linea di controllo, ma questa è una proposta che deve ricevere l’avallo di entrambe le parti. Da questo punto di vista, l’Azerbaijian è l’attore meno interessato a misure di contenimento del conflitto perché più forte militarmente e perché gode del sostegno indefesso del Sultano di Ankara. Il problema è che quello del Nagorno-Karabakh è un conflitto che non può risolversi militarmente per un motivo molto semplice: l’Armenia ha le spalle coperte dal patto di mutua difesa con Mosca e gli ex satelliti sovietici che la pone al riparo da sortite improvvide. Dall’attuale situazione si uscirà, pertanto, solo quando il gruppo di Minsk dell’Osce formato da Mosca, Parigi e Washington – che è quello che ha l’incarico di sorvegliare il cessate il fuoco nel Nagorno-Karabakh – non avrà compiuto passi decisivi nel convincere le parti a sotterrare l’ascia di guerra e riaprire il negoziato. Anche in questo caso, tuttavia, le speranze di un esito roseo sono minime. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è già pronunciato a suo tempo tre volte sul caso del Nagorno-Karabah e ne ha sempre deliberato la titolarità dell’Azerbaijan. Una situazione che nuovi colloqui potranno forse migliorare con qualche accorgimento, tipo il varo di nuovi corridoi, ma non risolvere del tutto. La conclusione più probabile dei fatti di questi giorni è che l’Europa riavrà un conflitto congelato alle sue porte, con le armi di uno dei contendenti puntate proprio su quelle pipeline dove scorre quel gas per ottenere il quale abbiamo investito miliardi di dollari.
Nagorno-Karabakh: la guerra che preoccupa l’Ue
Pubblicato il 17/10/2020 - Messaggero Veneto, Il Piccolo
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