Sic transit gloria mundi. È questo, in sintesi, il messaggio insito nella notizia arrivata l’altra notte da un piccolo villaggio siriano al confine con la Turchia, dove un raid delle forze speciali Usa ha scovato e ucciso il n. 1 dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. Termina così la parabola terrena di un uomo che appena cinque anni e mezzo fa si era incoronato “califfo” e “comandante dei credenti”: titoli con cui, assumendo in un colpo solo il potere politico e religioso, egli reclamò la fedeltà e l’obbedienza dei musulmani di tutto il pianeta. Lungi dal fermarsi nei territori di Siria ed Iraq strappati alle legittime autorità nel caos in cui è precipitato il Levante tanti anni fa, la rivoluzione capitanata dal leader dell’Isis nutriva infatti ambizioni grandiose. Il progetto coltivato dal gruppo guidato dal 2010 da al-Baghdadi era di estendere i propri domini a tutta la Mezzaluna islamica, spodestandone i regimi con azioni sistematiche di guerriglia e terrorismo, e instaurando al loro posto un impero esteso dall’Atlantico al Pacifico. Era, si badi bene, un disegno che ci riguardava direttamente, e non solo perché le rivendicazioni territoriali comprendevano Spagna, Balcani e Sicilia, conquistati secoli fa dalle armate islamiche. Il sogno del califfo e dei suoi agguerriti seguaci investiva i nostri Paesi anche sotto la forma di attentati terroristici realizzati con il chiaro intento di intimidirci e dissuaderci dall’intervenire, e dei massicci flussi di migranti in fuga dalle terre piagate dalla violenza jihadista. Violenza che con l’Isis ha senz’altro conosciuto il proprio acme, ma che non è scaturita dalla sola ebbrezza di potere di al Baghdadi. L’Isis è infatti solo l’ultima sigla emersa dall’ormai centenario brodo di coltura chiamato fondamentalismo islamico: la reazione culturale e politica scattata in seno a quelle frange sociali del mondo islamico che, nella penetrazione delle proprie terre da parte delle forze della modernità forgiate in Occidente, hanno intravisto una calamità da contrastare con una controrivoluzione in chiave islamica radicale. E se questa sfida non ha sempre assunto forme violente – prova ne sono i tanti partiti islamici che partecipano alla dialettica elettorale dei rispettivi Paesi – non possiamo ignorare come, da quattro decenni a questa parte, tali spinte abbiano trovato teorici e leader che, scartando la via della politica, hanno predicato la presa insurrezionale del potere. Abbiamo così visto entrare in scena gruppi come i talebani, che del fondamentalismo combattente ed oppressore rappresentano l’epitome, e altri gruppi che hanno intrapreso la medesima via della guerra santa. È la strada che aveva imboccato al Qa’ida, il movimento di Osama bin Laden, prima che la sua missione – e tanti seguaci – le fosse sottratta dagli affiliati iracheni messisi in proprio nel 2014 con il nome di Isis. La morte di al Baghdadi segna quindi la fine di una leadership, ma non quella di un sogno – di gloria islamica, ancorché oscura e minacciosa – che non solo persisterà, ma ha già dimostrato di saper procedere al ricambio dei propri vertici falcidiati dal gendarme a stelle e strisce.
Marco Orioles