Conversazione di Start Magazine con Mario Del Pero, docente di Storia Internazionale e Storia della politica estera statunitense all’Institut d’études politiques/SciencesPo a Parigi, e autore del libro Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il Mondo (Laterza)
I fatti di Minneapolis e la successiva deflagrazione della violenza nelle piazze d’America hanno squarciato il velo su una verità che era probabilmente solo nascosta sotto il tappeto: la questione razziale.
Gli afroamericani in rivolta per la morte violenta di un nero da parte di un agente di polizia rappresenta, peraltro, un deja vu negli States: episodi inaccettabili tanto nella loro frequenza quanto nella loro capacità di riportare a galla le ferite ancora non sanate di un Paese che appena mezzo secolo fa praticava la segregazione.
Il sospetto è dunque che l’incidente di Minneapolis sia tutto fuorché il parto del caso, ma sia invece l’indicatore di una situazione sociale che necessità di una lunga e approfondita riflessione.
Riflessione svolta con l’aiuto di uno studioso italiano che conosce l’America come pochi e ne insegna la storia all’Institut d’études politiques/SciencesPo di Parigi: Mario Del Pero.
In questa conversazione con Start Magazine, il professor Del Pero ci spiega perché quella dell’America postrazziale sia stata solo una temporanea illusione – strettamente associata alla figura del primo presidente afroamericano della storia – e perché le cosiddette racial relations oltreoceano siano ancor oggi materia complessa da decifrare e ancor più da maneggiare in chiave politica.
Professore, non è passato molto tempo da quando andava di moda definire l’America una società postrazziale. Dopo le scene di questi giorni non si può fare a meno dal considerare quella definizione un grande inganno, o meglio una pia illusione che ci ha impedito di vedere la cenere che covava sotto il tappeto.
L’idea che l’America fosse diventata postrazziale e anche post-ideologica è figlia dell’elezione di Barack Obama nel 2008. Obama ne incarnava tutte le virtù: afroamericano, centrista, liberal non troppo di sinistra, desideroso di ricomporre e curare le mille ferite americane. Col senno di poi, non possiamo che definirla un’illusione, nel senso che la linea razziale – che è un marchio che sta ab origine nella storia americana – era ancora lì e aspettava solo di esplodere. Quanto al post-ideologico non ne parliamo: l’America sta vivendo una fase di estrema polarizzazione politica, culturale e ideologica. È il lungo lascito delle grandi guerre culturali dell’ultimo mezzo secolo, che hanno creato due fronti politici o due bacini impermeabili l’uno all’altro. La mobilità elettorale non esiste più: il 90% degli elettori quando va alle urne vota per il candidato dello stesso partito qualsiasi sia la carica da eleggere. Dunque polarizzazione ideologica e razziale sono sempre state lì e anzi con Obama sono letteralmente esplose.
In che senso?
La frattura che già esisteva tra società bianca e nera esplode perché una frangia minoritaria ma non marginale di America bianca, tendenzialmente maschile e anziana, non solo non ha accettato un presidente nero alla Casa Bianca, ma ha montato una virulenta campagna di delegittimazione che ne ha messo in discussione persino la cittadinanza americana. È su questa rabbia che poi Donald Trump costruirà la sua fortuna elettorale.
Quali sono i problemi che rendono i corpi di polizia americana inclini ad atti del genere – non è la prima volta tra l’altro che circolano video come quello di Minneapolis – che scatenano poi l’inferno?
Sebbene l’episodio di Minneapolis non sia isolato, bisogna evitare di incriminare la polizia americana nel suo complesso sostenendo che esprima di proprio una violenza istituzionale. Le forze di polizia, che sono governate a livello municipale, hanno dimostrato anzi una notevole capacità di riformarsi e riportare sotto controllo alcune pratiche discutibili. Ciò detto, è necessario mettere in rilievo alcuni elementi che rendono molto particolare il lavoro degli agenti. Anzitutto, essi operano in un contesto di estrema pericolosità e violenza, e di conseguenza tendono a rispondere in maniera spropositata a tale pericolo. In secondo luogo, le forze di polizia operano dentro un retaggio, che è quello delle politiche di tolleranza zero attivate negli anni ’80 per far fronte a tassi fuori controllo di criminalità. E quelle furono politiche pensate proprio per dispiegare la violenza, che finiva per colpire e colpisce ancora in forma maggiore i giovani e i membri delle minoranze, che sono considerate le persone più pericolose in una cultura che favorisce il racial profiling.
Lei stesso però sottolineava che nel corso del tempo ci sono stati mea culpa e ripensamenti in seno ai corpi di polizia, spesso sollecitati da episodi clamorosi.
Proprio così. Sono state introdotte numerose misure volte ad impedire il ripetersi delle violenze che sono scaturite ciclicamente negli anni. Pensi che adesso circa il 95% degli agenti ha l’obbligo di indossare una telecamera accesa mentre è in servizio al fine di documentare la propria attività e in particolare il rispetto delle regole di ingaggio. Il governo federale ha poi introdotto una serie di procedure in diversi distretti relative al controllo e al monitoraggio che hanno dato i loro frutti.
Negli Usa da mezzo secolo circa sono state elaborate e sperimentate politiche cosiddette di “affirmative action” volte a incentivare l’inclusione sociale ed economica delle minoranze, e il panorama della diversità in America è effettivamente cambiato almeno sin dai tempi di un popolare Segretario di Stato afroamericano come Colin Powell. Che pensa a tal proposito?
I progressi ci sono stati, questo è indubbio, e sono anche misurabili. Prendiamo l’indicatore classico che è stato spesso usato per denunciare la persistenza di forme di discriminazione razziale anche in una società formalmente e legalmente post-segregata come quella Usa: la popolazione nera nelle carceri. Sebbene rimanga sovrarappresentata, è calata di un terzo dal 2006 ad oggi. È successo nel contesto di una diminuzione generalizzata dei numeri della popolazione carceraria, ma con una tendenza ancora più marcata nel caso degli afroamericani. Un altro indicatore di progresso è l’aumento del numero degli afroamericani che completa un ciclo di studi universitari, che dagli anni ’60 ad oggi è pressoché raddoppiato. I programmi di affirmative action hanno dunque funzionato, questo è indiscutibile, portando a processi di desegregazione in varie istituzioni pubbliche, la più importante delle quali è l’esercito, dove oggi sono molti gli afroamericani – e l’esempio di Powell è sicuramente il più calzante – che fanno carriere apicali.
Certo è che un pezzo d’America, magari minoritario ma non certo inconsistente, non sembra digerire questa trasformazione.
È vero, e la situazione si è addirittura aggravata con la crisi economica del 2007/8, la cui onda lunga stiamo ancora vivendo. Quella fu una crisi che colpì in modo massiccio, ancora più dei ceti più deboli, quel segmento sociale e di reddito intermedi dove è sovrarappresentata un’America bianca con livelli di istruzione medio-bassi. Americani che si erano magari indebitatati pesantemente per la casa, e all’improvviso si sono visti impoveriti. Fu questa situazione che generò un’ondata di riflusso, uscita allo scoperto più o meno dieci anni fa con il movimento del cosiddetto Tea Party, il quale indirizzò il proprio malcontento verso i cosiddetti “undeserving”, i cittadini che vivono di sussidi pubblici e programmi assistenziali. È bastato poco poi perché all’accusa politica si sovrapponesse quella razziale, con gli afroamericani che finirono per essere considerati in blocco dei parassiti. Pertanto, come molti hanno osservato, questa è la ribellione di un pezzo di America bianca che sogna il ritorno agli anni ’50. Non l’ha inventata Trump, che si è semplicemente limitato a cavalcarla.