Il vicepremier e Ministro degli Esteri Antonio Tajani si è recato in questi giorni in Cina con l’obiettivo ufficiale di approfondire il partenariato strategico tra Pechino e Roma, rafforzare le relazioni commerciali e, soprattutto, preparare il terreno per la visita che Giorgia Meloni compirà nei prossimi mesi. Spetterà alla premier infatti l’onere di comunicare al governo cinese, spiegandone i motivi, l’uscita dell’Italia dal Memorandum sulla Via della Seta firmato in pompa magna dal governo Conte 1 nel marzo 2019 nel contesto del solenne passaggio romano del Presidente cinese Xi Jinping. Già a quel tempo la decisione dell’esecutivo gialloverde era stata oggetto di serrate critiche provenienti persino dall’area di maggioranza. Agli occhi di alcuni parlamentari leghisti e di molti esponenti dell’allora opposizione di FdI parve inaccettabile che il nostro Paese diventasse il primo e l’unico dei sette Grandi (ma non dell’Unione europea) ad aderire al maxiprogetto infrastrutturale con cui Pechino mira a proiettare la sua influenza a livello globale. Quelli erano gli anni in cui alla Casa Bianca c’era un Donald Trump che, a suon di dazi e provvedimenti ostili, dava all’avvio a quella nuova guerra fredda tra gli Usa e il Dragone continuata a tamburo battente anche sotto la presidenza Biden. Ancora marginale nei palazzi romani e nei sondaggi, il partito di Meloni individuò nello scivolone cinese di Conte e Di Maio uno strumento con cui affermare e accreditare anche all’estero la propria fede atlantista, rilanciata poi da Palazzo Chigi con il fermo sostegno alla linea della Nato sulla guerra in Ucraina. Se è dunque la logica delle alleanze a spingere ora Roma a sfilarsi dal patto sulla Via della Seta, resta il problema di come spiegare il voltafaccia ai cinesi senza compromettere un interscambio commerciale che nel 2022 ha raggiunto la cifra record di 77,8 miliardi di dollari. Fa fede per ora l’intervista rilasciata la settimana scorsa da Meloni a Il Sole 24 Ore in cui la premier evidenzia un “paradosso”: “siamo l’unico Paese del G7 ad avere aderito alla Via della Seta, ma non siamo affatto il Paese del G7 o il Paese europeo col maggiore interscambio con la Cina”. Un concetto ribadito dallo stesso Tajani al Forum Ambrosetti di Cernobbio, dove ha ricordato i dati delle esportazioni italiane verso Pechino nel 2022, pari a “16,5 miliardi di euro” contrapposti ai “23 miliardi della Francia e ai 107 miliardi della Germania”. Ma in realtà il commercio è solo una parte della storia. Nell’ottica del governo, si tratta di compiere un gesto riparatore nei confronti di una Washington ritornata a essere il punto di riferimento della geopolitica italiana nel momento in cui l’egemonia Usa è apertamente sfidata dai disegni alternativi della Cina. Tutto lascia intendere insomma che sta per concludersi quella fibrillazione che quattro anni fa aveva messo città portuali come Trieste al centro di veri e propri sogni a occhi aperti di crescita e sviluppo, ma con una regia cinese ingombrante e politicamente insostenibile.
Marco Orioles