di Marco Orioles
Il senso e la gravità delle ultime 48 ore vissute pericolosamente dal capo dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) Khalifa Haftar sono condensate nel tweet lanciato alle 9:37 di ieri mattina da Alessandro Scipione, coordinatore per il Medio Oriente e il Nordafrica di Agenzia Nova:
https://twitter.com/AlexScipione/status/1114069445893414912
Il cinguettio evidenzia tutta la drammaticità del momento. Come riferisce il dispaccio di Agenzia Nova delle nove del mattino, nove alte personalità libiche si sono ritrovate ieri nella sala vip dell’aeroporto di Mitiga per lasciare di gran carriera, su voli diretti a Istanbul e Tunisi, la Tripolitania minacciata dalle forze del generale Haftar. I nomi più in vista sono quelli di Mohammed Amari, Fathi al Majbari e Ahmed Hamza, membri del Consiglio di presidenza; di Ali al Misawi e Mohammed Isa, rispettivamente ministri dell’Economia e della Salute; e di Mustafa Sanallah, presidente della National Oil Corporation.
La fuga dei grand commis è l’indicatore più eloquente di una situazione sul punto di esplodere, come la violenza di cui sono portatori quei soldati che Haftar ha mobilitato giovedì con l’ordine di espugnare Tripoli, sede di quel Governo di Accordo Nazionale che costituisce l’ultimo ostacolo che si frappone al disegno del feldmaresciallo di diventare il dominus incontrastato della Libia.
Si rincorrono per tutto il giorno le voci dell’avanzata del LNA verso la capitale, distante non più di venticinque chilometri dall’avanguardia degli uomini di Haftar. Ma, nella nebbia della guerra che sconquassa, come ricordava Clausewitz, anche il piano militare più accurato, a farsi strada nel concitato flusso di informazioni che dalla Libia scorre verso il resto del mondo sono le notizie della mobilitazione delle milizie di Misurata e di Zawiya, decise a respingere la marcia del generalissimo. “Siamo i rivoluzionari e gli anziani”, affermano in un video postato in rete; “dichiariamo che siamo in (…) guerra”.
Così, mentre le agenzie raccontano gli scontri nel distretto occidentale di Qasr Bani Ghashir, a pochi passi dall’Aeroporto Internazionale, a fare notizia è soprattutto la fiera reazione di chi ha giurato di difendere la capitale dal proditorio assalto delle forze dell’Est. Il Libya Herald riferisce dell’operazione “Wadi Doum 2” lanciata dalle milizie anti-Haftar con un nome dal forte valore simbolico: Wadi Doum è infatti una pista di atterraggio nel Ciad settentrionale che fu teatro più di trent’anni or sono di una bruciante sconfitta subita da Haftar quando era al servizio del colonnello Gheddafi.
Scelgono dunque un’etichetta provocatoria, i difensori, per rimarcare la natura velleitaria dell’offensiva del LNA. Il quale, nelle prime battute della battaglia, fa circolare sul web delle immagini che ritraggono i soldati nell’atto di catturare il checkpoint KM27, sulla strada costiera che collega Zawia a Tripoli. Propaganda rintuzzata, qualche ora dopo, dalle milizie coalizzate che diffondono nei social le immagini di un centinaio di soldati del LNA catturati nei pressi del checkpoint e, come ulteriore beffa, del capo del GNA Fayez al-Serraj immortalato nei paraggi mentre incontra gli uomini a lui fedeli. Le foto mostrano anche alcuni veicoli corazzati degli attaccanti sotto sequestro, con la scritta ben visibile “106mo battaglione”, unità comandata niente meno che dal figlio di Haftar, Khaled.
Se quella lanciata giovedì doveva essere, nei piani di Haftar, l’offensiva finale per debellare il virus del terrorismo islamista insediato nella Tripolitania controllata dai rivali del GNA, l’umiliazione subita dal LNA al checkpoint KM27 testimonia di un clamoroso fallimento. E fa fare un sospiro di sollievo alla comunità internazionale, che aveva assistito agli eventi degli ultimi due giorni con un misto di apprensione e rassegnazione.
Mentre in Libia andava in scena il regolamento di conti tra i campi filo e anti-Haftar, a New York si riuniva a porte chiuse, su iniziativa della Gran Bretagna, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu proprio per discutere della situazione nel paese nordafricano. Dopo aver ascoltato il briefing dell’inviato in Libia Ghassan Salamé, i membri permanenti e temporanei hanno ribadito che non può esserci una soluzione militare alla disputa libica, esortando le parti a “riprendere il dialogo” e “impegnarsi costruttivamente nel processo politico” sponsorizzato dalla stessa Onu.
Onu che, nelle stesse ore in cui nei dintorni di Tripoli la situazione andava precipitando, si trovava proprio in Libia con il volto del suo massimo rappresentante. Il Segretario Generale Antonio Guterres era nella capitale nel momento in cui Haftar muoveva le sue truppe. Ieri, invece, il n. 1 del Palazzo di Vetro si è recato in Cirenaica, dove ha incontrato sia Haftar sia il capo del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh. “Lascio la Libia con cuore pesante e profonda preoccupazione”, ha scritto Guterres su Twitter prima di abbandonare il Paese. “Spero ancora”, ha aggiunto, “che sia possibile evitare un sanguinoso confronto armato dentro ed attorno a Tripoli. Le Nazioni Unite rimangono impegnate a facilitare una soluzione politica…”.
I leave Libya with a heavy heart and deeply concerned. I still hope it is possible to avoid a bloody confrontation in and around Tripoli.
The UN is committed to facilitating a political solution and, whatever happens, the UN is committed to supporting the Libyan people.
— António Guterres (@antonioguterres) 5 aprile 2019
Le Nazioni Unite, già: la road map tracciata alla Conferenza di Palermo organizzata dal governo italiano lo scorso novembre affida proprio a Salamé la regia del processo politico. Un processo che dovrebbe culminare con la convocazione, fissata adesso ai prossimi 14-16 aprile in quel di Ghadames, di una Conferenza Nazionale chiamata a mettere attorno ad un tavolo i principali protagonisti della crisi e gli esponenti della società civile per concordare una via d’uscita all’attuale stallo e nuove elezioni.
Questa è, al momento, la prospettiva alla quale la comunità internazionale affida tutte le chance di trovare una soluzione al puzzle libico. La si ritrova, ad esempio, nel comunicato congiunto redatto, poche ore dopo l’inizio dell’offensiva di Haftar, dai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Emirati Arabi Uniti e Italia.
“Crediamo fortemente” – scrivono le cinque cancellerie – “che non ci sia una soluzione militare al conflitto libico. (…) Tutti gli attori libici dovrebbero lavorare costruttivamente con (l’inviato) Salamé mentre l’ONU finalizza i suoi piani per la conferenza nazionale in programma il 14-16 aprile”.
Ed è proprio in vista di questo appuntamento, d’altra parte, che Haftar ha fatto la sua mossa. Più che a conquistare Tripoli con la forza, compito che – come dimostra l’episodio del checkpoint KM27 – è fuori dalla portata del LNA, il generale ha giocato le sue carte preferite sul piatto di un negoziato in cui vuole sbancare.
Ecco perché pare aver ragione l’analista Arturo Varvelli quando definisce l’offensiva di giovedì un “bluff”. Che serve ad Haftar “soprattutto per capire chi è disposto a fargli la guerra e su chi invece può contare” in vista della definizione di un accordo politico. Del resto, osserva Varvelli, se Haftar “vuole conservare una legittimità, interna e internazionale, non può permettersi un bagno di sangue”. A questo vincolo, poi, se ne aggiunge un altro: il generale “non dispone (ancora) di una forza militare così soverchiante per prendere militarmente la capitale. (…) Finché Misurata (…) difende la capitale”, è la conclusione di Varvelli, “l’ingresso del generale resta difficile”.
Occhi puntati su Tripoli, dunque, per capire cosa faranno adesso gli uomini di Haftar dinanzi alla fiera resistenza delle milizie coalizzate contro di lui. Ma sarà conveniente, nel frattempo, cominciare a volgere lo sguardo in direzione di Ghadames, dove tra poco più di una settimana capiremo se l’Opa lanciata dal feldmaresciallo raccoglierà o meno i suoi frutti. E capiremo così anche se gli sponsor internazionali del generalissimo – gli Emirati, l’Egitto, l’Arabia Saudita (dove Haftar, a corte, è stato ricevuto appena dieci giorni fa), e ovviamente la Francia di Macron, oggetto non a caso del risentito commento del ministro Salvini, abbiano scommesso sul cavallo giusto.