di Marco Orioles
La notizia della probabile e addirittura imminente adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative (BRI), le famose “nuove vie della seta” cinesi, non è di quelle che passano inosservate. Al contrario, la rivelazione fatta mercoledì dal “Financial Times” secondo cui – fonte, il sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico Michele Geraci – il Memorandum of Understanding (MoU) che regolamenterà la nostra partecipazione al maxi progetto infrastrutturale della Repubblica Popolare è in dirittura d’arrivo, ha fatto rapidamente il giro del mondo. Provocando le immediate reazioni degli Stati Uniti che, attraverso il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, organo della Casa Bianca che si occupa di minacce strategiche, hanno reso noto tutto il loro disappunto. La mossa italiana, d’altronde, non può che apparire irritante agli occhi del nostro maggior alleato. Il nostro Paese sarebbe infatti il primo del G7 a prendere parte alla BRI, che ha raccolto l’interesse di oltre sessanta nazioni che sorgono sulle rotte terrestri e marittime tracciate dalle nuove infrastrutture made in China, ma non di un membro importante del gruppo dei Grandi o dell’Unione Europea. Saltando sul carro del presidente cinese Xi Jinping, che ha fatto della BRI il proprio manifesto imperiale, il governo gialloverde sta compiendo, con quanta consapevolezza non è dato sapere, un’operazione spericolata e ricca d’insidie. Che farebbe diventare l’Italia, secondo il giustificato sospetto degli Usa, il cavallo di Troia di un regime totalitario che sta usando la “diplomazia delle infrastrutture”, oliata da un budget vicino al trilione di dollari, per inglobare interi pezzi di Europa e di Asia in un piano di globalizzazione alternativa – e “con caratteristiche cinesi” – a quella di cui gli Stati Uniti sono stati sinora il perno e l’autorità ultima. Dietro la BRI, in breve, s’intravede un preciso disegno geoeconomico e geopolitico di Pechino che si accompagna ad una sfida mortale alla leadership mondiale di Washington. Se gli investimenti cinesi suscitano giustamente l’interesse dei porti italiani come quello di Trieste, candidato ad essere il terminale adriatico della via della seta marittima, le loro implicazioni di lungo termine non possono sfuggire a nessuno. Se davvero quel Mou sarà firmato i prossimi 21-22 di marzo in occasione della visita in Italia di Xi, il nostro Paese avrà fatto un vero e proprio salto nel buio. Finendo per essere assorbito – prima grande economia mondiale a subire questo destino – nella sfera di influenza cinese e allontanandosi fatalmente dall’orbita statunitense. Ciò che a Roma sembra sfuggire è che l’America di Donald Trump si è lanciata in una poderosa offensiva anti-cinese di cui sono espressioni emblematiche la guerra dei dazi e il tentativo di escludere due colossi delle telecomunicazioni del Dragone, Huawei e Zte, dalla ricca torta del 5G. E sta chiedendo a tutti gli alleati di serrare i ranghi. Se la nostra risposta è la provocatoria adesione alla BRI, c’è da chiedersi se il governo pentaleghista, che peraltro si professa sovranista, sia davvero in grado di tutelare gli interessi strategici del nostro Paese.