Chiamiamola con il suo nome: resa. La débâcle sullo ius soli non può essere definita diversamente. Un provvedimento approvato alla Camera in nome della “civiltà” non può essere abbandonato a metà percorso senza che quella stessa civiltà si sgretoli. Chi lo ha sostenuto dal primo minuto si sente ora abbandonato dall’intera classe politica. Da chi ha portato avanti il disegno di legge, che alza le mani. E da chi l’ha avversato, che stappa lo champagne. È il trionfo della demagogia sulla ragione. Del populismo sui diritti. Dell’arretratezza sul progresso. Sì, il progresso. L’Italia è cambiata, irreversibilmente. Da trent’anni a questa parte, ha schiuso le sue porte ad un esercito di lavoratori di svariate provenienze che hanno contribuito, col sudore della propria fronte, alla tenuta della nostra economia in difficoltà di fronte alle forze della globalizzazione. In non pochi casi, gli immigrati hanno permesso alle nostre imprese di cavalcarla, la globalizzazione. La locomotiva del Nordest ha mantenuto il passo grazie alla stampella del lavoro straniero. Lo stesso è accaduto per molti distretti industriali del Belpaese. Idem nei servizi, settore che cresce in tutte le economie avanzate man mano che si consolidano tutti gli altri. Industria, artigianato, cooperazione, ristorazione, trasporti, sanità, assistenza. Non bastano le nostre mani per contare gli ambiti economici che, senza gli immigrati, non avrebbero retto al tracollo demografico. Siamo il paese dei record, quanto a culle vuote e ad invecchiamento della popolazione. Quei pochi giovani che ci sono disertano tutta una serie di posizioni che, per qualità del lavoro e retribuzione, sono tutt’altro che ambiti. Ci hanno pensato i cittadini stranieri, a ricoprirle. Con spirito di sacrificio e con uno zelo che non ha riscontri tra gli autoctoni. Man mano che divenivano indispensabili, gli immigrati hanno pensato bene di fare famiglia. E di coronare un sogno che è insito nella natura umana: la prole. I figli degli immigrati sono divenuti parte del nostro paesaggio sociale. Basta guardare alle scuole, dove le seconde generazioni sono un pilastro della loro utenza. Tra i banchi, nessuno guarda alla cittadinanza. L’empatia è la legge che governa l’esistenza degli scolari. Ora che le seconde generazioni di immigrati sono cresciute, in mezzo alle nostre, hanno dinanzi una sfida: diventare membri attivi delle nostre economie. Partecipi delle dinamiche della crescita, che tutti noi guardiamo con speranza in questi tempi difficili. Diventeranno imprenditori, esercenti, impiegati, artigiani, operai, avvocati, infermieri, medici. Che sguardo rivolgeranno alla politica, attività centrale della nostra vita pubblica, ora che i suoi rappresentanti hanno voltato loro le spalle? Quanto inciderà, sul loro senso civico, il deficit di coraggio e lungimiranza che ha portato all’abbandono dello ius soli? Qualcuno dice: ma gli stranieri possono già diventare cittadini alla maggiore età, se ne fanno richiesta. Vero, con qualche eccezione. Basta aver trascorso qualche settimana di troppo nel paese di origine dei genitori per vedersi rigettata la domanda, rinviata alle calende greche. Ma quand’anche possedessero tutti i requisiti, che messaggio stiamo mandando, ai ragazzi che sono nati qui e che, a differenza dei loro compagni di scuola, non hanno un passaporto italiano né possono partecipare ad un concorso pubblico fino a quando lo Stato, con magnanimità, concede loro il permesso? Chi ha un senso della giustizia sa che questa asimmetria, che divide gli italiani di diritto e di fatto, è profondamente sbagliata. Sa che chi ha i natali e cresce qui, parla italiano (e dialetti) dalla nascita, condivide stili di vita e passioni coi nostri ragazzi, frequenta insieme a loro scuole, oratori, associazioni sportive e culturali, cinema e teatri, è indistinguibile da chiunque altro. Lo ius soli, peraltro temperato ossia subordinato ad alcune condizioni stringenti, sarebbe servito a colmare il divario tra il diritto e la costituzione materiale della nostra società. Una società che non può accettare più nozioni arcaiche come il “diritto del sangue”. Non è più il sangue a stabilire, nella società globalizzata, chi è parte di essa e chi no. È membro della nostra società chi la ama, la vive e partecipa con naturalezza alle sue attività ed istituzioni. Per queste ed altre ragioni, rinunciando a portare avanti la legge sullo ius soli, i nostri politici oggi ci hanno deluso. Hanno dimostrato di non essere all’altezza delle sfide che una società complessa e diversificata portano alla loro attenzione, chiedendo di essere affrontate e risolte con saggezza, senso critico e, diciamolo pure, col cuore. Quel cuore che nei figli dell’immigrazione batte ai ritmi dell’italianità, e che questa pessima notizia trafigge a tradimento.
La resa sullo Ius soli e il cuore trafitto dei nostri giovani
Pubblicato il 13/09/2017 - MessinaOra
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