Per comprendere la logica della “guerra delle petroliere” in corso nello stretto di Hormuz è essenziale guardare alla genesi delle tensioni tra Repubblica Islamica e Occidente. Il sequestro compiuto venerdì dai Guardiani della Rivoluzione di una petroliera britannica che stava attraversando il canale che divide l’Iran dall’Oman è infatti l’ultimo anello di una catena che comincia a snodarsi nel maggio 2018. Quello è il momento in cui Donald Trump decide di ritirare la firma degli Usa dall’accordo nucleare (Jcpoa) che l’America aveva sottoscritto nel luglio 2015 insieme all’Iran, ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia), alla Germania e all’Ue. Uno strappo clamoroso, motivato dall’insoddisfazione per un’intesa che il tycoon aveva più volte denunciato come il prodotto fallimentare del suo predecessore Obama. Per l’attuale capo della Casa Bianca, il Jcpoa è infatti piagato da alcuni difetti intrinseci: non solo limita per appena quindici anni le attività nucleari consentite alla Repubblica Islamica, ma non prevede restrizioni per un programma missilistico che gli Usa ritengono una minaccia ai propri interessi e a quelli dei propri alleati regionali, né richiede all’Iran di moderare una politica estera considerata la principale fonte dei guai del Medio Oriente. Di qui, dunque, la scelta americana di sfilarsi dall’accordo e di mettere in piedi una campagna di “massima pressione” contro l’Iran finalizzata a determinarne il ritorno al tavolo negoziale. Due i metodi scelti dall’amministrazione Trump per piegare Teheran e costringerla a firmare un Jcpoa rafforzato: l’imposizione di sanzioni volte soprattutto ad azzerarne l’export petrolifero, e il rafforzamento del dispositivo militare con cui la superpotenza presidia tradizionalmente la regione del Golfo Persico. Strumenti diversi ma che convergono nell’obiettivo di accerchiare l’Iran e indurlo ad accettare la resa. Ma obbedire ai diktat di Washington è l’ultima cosa che un regime fondato sulla resistenza all’imperialismo occidentale può fare senza accelerare la propria stessa fine. La caduta del sistema di potere edificato con la rivoluzione khomeinista sembra essere d’altronde la vera missione dei falchi che sussurrano all’orecchio di The Donald. Peccato che gli ayatollah vogliano vendere cara la pelle, e stiano ora dando seguito ad una minaccia formulata più volte durante questa crisi: se ci impedite di esportare il nostro greggio, noi facciamo altrettanto con quello che gli altri produttori del Golfo devono far transitare per lo stretto di Hormuz. E poiché stiamo parlando di un tratto di mare da cui passa più del 20% di tutto il petrolio venduto nel pianeta, si può ben capire come lo scontro Usa-Iran abbia ormai assunto portata e conseguenze globali. Compiendo un atto di pirateria contro una petroliera di Londra, Teheran pensava forse di segnalare urbi et orbi la propria determinazione. Ma l’unico risultato che raccoglierà è alienarsi un Paese come la Gran Bretagna che, oltre a non condividere le politiche trumpiane, si stava impegnando con Parigi e Berlino a mantenere vivo il Jcpoa. La classica zappa sui piedi.
La petroliera e la zappa sui piedi dell’Iran