La pandemia ci renderà migliori? La domanda sorge spontanea se pensiamo alle condizioni in cui versavano le società occidentali prima dell’emergenza Covid-19. Condizioni che erano ben state fotografate dal sociologo polacco Zygmunt Bauman, teorico della cosiddetta ‘società liquida’. Nella visione di Bauman, gli individui avevano smarrito tutte le identità collettive e le appartenenze per rifugiarsi in un individualismo spinto e accelerato dalla rivoluzione digitale. Le persone appagavano i propri bisogni sociali accedendo ai consumi e librandosi negli spazi virtuali dove le aggregazioni erano certo semplici da formarsi ma pur sempre effimere e instabili. Il pensiero di Bauman si aggancia perfettamente qui a quello del famoso antropologo francese Marc Augé, noto per aver coniato la nozione di ‘non luoghi’. Per Augé il tramonto della società moderna, densa di relazioni e significati, è simboleggiato dal proliferare di questi non luoghi alienanti come i centri commerciali: spazi della circolazione e del consumo ma non dell’aggregazione che non custodiscono alcuna memoria del passato da cui hanno tagliato decisamente i ponti impedendo alle persone di coltivare un’identità radicata. Tutte queste riflessioni si pongono nel solco della crisi della società di massa e delle identità tradizionali, che in un mondo globalizzato hanno l’effetto di liberare gli individui da ogni vincolo ma anche di lasciarli da soli nelle loro navigazioni nel cyberspazio. Ma quanto c’è ancora di attuale oggi in queste letture della trasformazione della società? La risposta ce la fornisce proprio la pandemia che, avendo privato le persone del contatto col prossimo, ha fatto crollare come un castello di carte il mito dell’internauta solo e felice delle sue frequentazioni virtuali. Quel che vediamo, infatti, è una domanda pressante di socialità in presenza e di condivisione di momenti di vita reale. È una istanza che viene espressa soprattutto dagli studenti estenuati dalla DAD e dal connesso isolamento domestico, ma che non è estranea agli adulti che avvertono con forza la necessità di spazi di condivisione. La richiesta a gran voce della riapertura di sale e teatri è la cartina al tornasole di un bisogno di stare insieme e godere collettivamente del bene primario della cultura. L’attesa spasmodica del ritorno in zona gialla va dunque letta anche sotto questa chiave: a muoverla non sono solo le pur centrali questioni economiche ma anche il bisogno incomprimibile delle persone di confrontarsi e interagire in presenza. È forse presto per dire che ci sarà un’inversione di tendenza con particolare riguardo al ricollocamento delle relazioni sociali dalla rete al mondo reale. Si può però pronosticare un riequilibrio in cui la dimensione del virtuale non sarà più esclusiva ma alternativa al ritorno in auge degli spazi fisici e delle aggregazioni. Chissà insomma se paradossalmente grazie a un virus si attenuerà l’individualismo sfrenato e ci riscopriremo come una comunità coesa e solidale.