Anche quest’anno, la relazione presentata al Parlamento dai servizi segreti evidenzia l’elevato rischio posto all’Italia dal terrorismo jihadista. La nostra esposizione discende da molteplici fattori, non ultima la strategia inaugurata dall’attore più pericoloso in campo – lo Stato islamico – con gli attentati di Parigi. Attacchi che potrebbero ripetersi in qualsiasi momento in virtù dello scenario materializzatosi in quella circostanza: il coordinamento tra la centrale del terrore attiva in Siria ed Iraq e le cellule presenti sui nostri territori, grazie al quale gli emissari del califfato entrano in relazione con estremisti locali per attuare i loro disegni.
Da questi elementi discende una minaccia dalla natura duplice: «strutturata» perché espressione di un movimento organizzato e dotato di notevoli risorse, non ultimo un territorio in cui addestrare la propria manovalanza; «puntiforme», perché in essa rientrano numerosi militanti autoctoni che, non di rado ad insaputa di chi gli sta intorno, vengono sedotti dalla causa del terrore grazie ad un’intensa attività di istigazione esercitata sul web. A questo tipo di rischio l’Italia risulta particolarmente esposta per almeno tre motivi: per la sua appartenenza al sistema occidentale, per l’attuale celebrazione giubilare e per la presenza sul suolo nazionale di «aspiranti mujahidin» che, anche su proprio impulso, «potrebbero decidere di agire entro i nostri confini». I servizi hanno registrato infatti «crescenti segnali di consenso verso l’ideologia jihadista» presso «soggetti residenti in Italia o italofoni».
Da anni, il jihadismo autoctono rappresenta il principale spettro per la nostra sicurezza. Fu questa la lezione degli attentati di Londra del 7 luglio 2005: il terrorismo fondamentalista in Europa non è più solo espressione di soggetti e movimenti che operano dall’esterno, ma è coltivato da quelle seconde generazioni di immigrati che vivono il disagio della doppia appartenenza e lo sciolgono spesso con un atto unilaterale di lealtà nei confronti di un islam interpretato e vissuto in modo radicale. Di qui la necessità di un maggiore impegno sul fronte della prevenzione, che va attuata intervenendo sugli aspetti che possono far precipitare la situazione. La relazione punta l’attenzione su fattori noti: l’emarginazione, la frequentazione di ambienti devianti, la pressione sulla propria identità derivante dalla condizione carceraria.
Ma se l’Italia vuole prevenire una strage, oltre ad uno stuolo di assistenti sociali deve mettere in campo anche nuove risorse a favore degli organismi di sicurezza. I servizi precisano infatti che la radicalizzazione si innesca sovente con la coagulazione di network estremistici in cui la componente familiare, amicale o etnica è determinante. È la lezione della recente operazione di polizia che ha condotto all’arresto di Ajhan Veapi, il macedone residente ad Azzano Decimo (Pn) sospettato di aver reclutato vari foreign fighters tra i membri della diaspora balcanica. È questo insieme di condizioni che, per dirla con la relazione, rende l’odierno terrorismo internazionale qualcosa di «incombente e camaleontico, territoriale e liquido, organizzato e molecolare». Un intreccio che i nostri servizi sono chiamati a dirimere preservando la nostra sicurezza.