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La guerra delle petroliere nello Stretto di Hormuz spiegata da Ahmad Rafat. Il Taccuino di Orioles

Pubblicato il 22/07/2019 - Policy Maker

In Primo Piano nel Taccuino Estero di questa settimana, la guerra delle petroliere nello Stretto di Hormuz analizzata dal giornalista italo-iraniano Ahmad Rafat. Nella sezione “Notizie dal mondo”, la dichiarazione firmata anche dall’Italia che chiede un immediato cessate il fuoco in Libia, lo scambio di prigionieri tra Ucraina e Russia, l’Argentina che designa Hezbollah come organizzazione terroristica, le dure parole di Pence e Pompeo sulla persecuzione dei musulmani nello Xinjiang. 

PRIMO PIANO: LA GUERRA DELLE PETROLIERE VISTA DA AHMAD RAFAT

È stato un weekend ad altissima tensione, quello che si è aperto venerdì pomeriggio con le drammatiche notizie giunte dallo Stretto di Hormuz. Ma al di là del suo essere un fatto senza precedenti, capace di far convocare per ben due volte a Londra il comitato Cobra e di far schizzare istantaneamente in su il prezzo del greggio sui mercati, il sequestro di una petroliera britannica da parte dei Guardiani della Rivoluzione non può certo dirsi uno sviluppo inatteso.

Come ci spiega il giornalista italo-iraniano Ahmad Rafat che oggi, dopo una lunga carriera a Roma, è di stanza nella capitale britannica dove cura il giornale in lingua persiana Kayhan London, per ricostruire la genesi dell’ultima, clamorosa mossa dei pasdaran dobbiamo scorrere all’indietro il calendario e guardare a cosa è successo lo scorso 4 luglio a Gibilterra.

“Quel giorno – racconta Rafat – “al largo del territorio britannico sul Mediterraneo si trovava un supertanker iraniano, la Grace 1, che è stata oggetto di un blitz spettacolare dei Royal Marines i quali, agendo a quanto pare sulla base di una segnalazione degli Usa, si sono calati da un elicottero sul ponte della nave, che è stata poi posta messa a disposizione delle autorità di Gibilterra dietro l’accusa che stesse violando le sanzioni dell’Ue contro la Siria. La Grace 1 stava infatti trasportando due milioni di barili di petrolio verso una raffineria siriana che nel 2014 è stata posta sotto embargo dall’Europa”.

LA REAZIONE DELL’IRAN

La reazione dell’Iran, ricorda Rafat, è stata furente, tra accuse di pirateria rivolte a Londra e la minaccia di una ritorsione “occhio per occhio, dente per dente” che si è materializzata pochi giorni dopo con un episodio che ha fatto elevare seduta stante il livello di allarme a Londra . “È successo infatti”, spiega il giornalista, “che unità navali veloci dei pasdran hanno tentato di sequestrare una petroliera britannica che stava attraversando lo stretto di Hormuz: un’azione fallita solo perché è intervenuta una nave da guerra britannica, la Montrose, che si è frapposta tra la petroliera e i barchini dei Guardiani, facendoli desistere”.

Cosa volessero ottenere i Guardiani con un’azione così audace è presto detto, secondo Rafat. “Il loro obiettivo”, puntualizza, “era catturare una petroliera britannica per costringere la Gran Bretagna ad uno scambio. È insomma la solita logica mediorientale del bazar”.

Se la logica è questa, con la mossa di venerdì Teheran sembra aver conseguito un primo risultato: adesso una petroliera britannica, la Stena Impero, è sotto sequestro in Iran. La possiamo considerare una vittoria? “Non direi”, è la risposta di Rafat. “Se guardiamo bene a come si sta sviluppando questa crisi, l’Iran si sta comportando come un leone ferito messo all’angolo che reagisce furiosamente. Cito solo un dato: l’istituto nazionale di statistiche ha appena pubblicato gli ultimi dati economici che mostrano come l’inflazione sia aumentata del 54%, con i generi di prima necessità che sono schizzati in alto con vette del 70%. Secondo molti economisti iraniani, se non si sblocca la situazione tra pochi mesi l’Iran sarà in ginocchio”.

TEHERAN ALLE CORDE

Con le sanzioni americane che mordono sempre di più, e l’export petrolifero ridotto al lumicino, l’Iran è ormai alle corde. E con l’amministrazione Trump determinata a tirare diritto nella campagna di “massima pressione” concepita per metterla in ginocchio, e costringerla ad accettare un nuovo negoziato, a Teheran è rimasta sola una speranza: l’Europa e il suo “Instex”, lo special purpose vehicle approntato dall’Ue quest’inverno per continuare a commerciare con l’Iran aggirando le sanzioni Usa.

Secondo Rafat, tuttavia, sono speranze mal riposte. “L’Iran si illude di ottenere da Instex somme equivalenti all’export petrolifero. Pretenderebbe cioé di avere dai Paesi europei la stessa quantità di danaro che gli veniva dalle esportazioni di petrolio. Ma si tratta, appunto, di un’illusione. Di fatto, l’Iran sta chiedendo all’Europa di dare soldi all’Iran a babbo morto. Ma solo la Germania potrebbe essere in grado di mettere soldi in Instex così, senza avere nulla in cambio. Paesi come la Francia o l’Italia non sono certo nelle condizioni di fare simili donazioni”.

Ma se Instex è un guscio vuoto, che è peraltro pensato solo per i beni umanitari, perché l’Iran insiste così tanto? “Per un motivo molto semplice”, è la risposta del nostro interlocutore. “All’Iran basta che gli europei ci mettano i soldi. E, se ci sono i soldi, modi per riciclarli se ne trovano. Ricordo solo cosa faceva Saddam Hussein quando l’Iraq era sotto sanzioni e l’Onu varò il programma Oil for food. Saddam prendeva il cibo e lo rivendeva sottobanco a Paesi terzi e ne ricavava cash da usare come meglio credeva. Ora, bisogna tenere presente che l’Iran è uno dei maggiori esportatori di cibo del Medio Oriente. Se uno entra in qualsiasi bazar iracheno, vedrà che il 30-40% di tutti i prodotti alimentari in vendita viene dall’Iran. E questa è per l’Iran una fonte preziosa di denaro liquido. Ciò che serve all’Iran, ora, è una copertura europea”.

Che l’Europa si presti a questo gioco pare però una scommessa azzardata. Dovrebbe, infatti, sfidare frontalmente gli Usa e le loro sanzioni extraterritoriali, cosa che vorrebbe anche fare, ma non può. Ecco perché, per Rafat, l’Iran sembra avere poche chance di scansare la furia di Donald Trump e di scongiurare proprio ciò che non può permettersi, ossia accettare un nuovo negoziato con gli Usa.

L’OMBRA SULLA REPUBBLICA ISLAMICA

Un dialogo che un uomo come la Guida Suprema Ali Khamenei non può che rifuggire con tutte le forze. Infatti, secondo Rafat, “quel che lui vuole prima di tutto è non fare la fine di Gheddafi, che scese a compromessi con l’Occidente salvo vedere pochi anni dopo gli aerei Nato bombardare il suo Paese e farlo fuori. Si tenga conto che Khamenei gode del consenso di uno zoccolo duro della popolazione, che possiamo stimare intorno al 10%. Ora, se lui fa marcia indietro davanti agli Usa e cala le braghe, accettando di negoziare, è finito. E con lui, finirebbe anche la Repubblica Islamica”.

Quando gli chiediamo di approfondire questa sua valutazione, Rafat ci rimanda alle conclusioni raggiunte dal gruppo di lavoro istituito presso il suo giornale, Kayhan London, al fine di esaminare le dodici condizioni poste mesi fa dal Segretario di Stato Usa Mike Pompeo per aprire una trattativa con l’Iran.

“Siamo giunti alla conclusione”, argomenta il giornalista, “che se l’Iran accetta solo quattro dei dodici punti – e quando dico quattro, intendo qualsiasi quattro delle dodici condizioni elencate da Pompeo –  la Repubblica islamica è finita. Se infatti l’Iran cessa di sostenere gruppi estremisti nella regione, smette di finanziare guerre nella regione, rinuncia al suo programma nucleare e a quello missilistico, perderebbe tutto il suo potere nella regione e non farebbe più paura a nessuno. E se si dimostra che l’Iran è debole all’esterno, all’interno la gente non avrebbe più paura del regime”.

Dietro la guerra delle petroliere nello stretto di Hormuz, e lo scontro in atto tra Usa e Iran in cui quella guerra si iscrive, si intravede insomma l’ombra di una sfida esistenziale per la Repubblica Islamica. Da questo momento in poi, ogni passo falso potrebbe decretare la fine dell’esperimento khomeinista. E sequestrare una petroliera britannica, da questo punto di vista, non pare un buon viatico per assicurarsi la sopravvivenza.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

Situazione ancora tesissima ad Hong Kong, dove nel fine settimana sono andate in scena una contro-manifestazione filo-governativa e filo-polizia e un nuovo, imponente corteo democratico. Ecco due tweet con i filmati dei due eventi:

 


NOTIZIE DAL MONDO

Anche la firma dell’Italia nella dichiarazione che chiede la cessazione delle ostilità a Tripoli. Oltre al nostro Paese, a siglare la dichiarazione sono stati Usa, Francia, Gran Bretagna, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. I firmatari esprimono la convinzione che “(n)on può esserci una soluzione militare in Libia” ed esortano dunque i contendenti a rilanciare il processo di pace mediato dalle Nazioni Unite interrotto bruscamente dall’offensiva lanciata dal generale Khalifa Haftar lo scorso aprile contro la capitale. “La violenza persistente” a Tripoli e nei dintorni, denuncia il documento, ha già causato la perdita “di circa 1.100 vite”, costretto “più di 100 mila” persone a fuggire e alimentato “una crescente emergenza umanitaria”. Le deteriorate condizioni di sicurezza, inoltre, hanno “esacerbato la tragedia delle migrazioni umane nel Mediterrano”. Infine, ammoniscono i firmatari, “gruppi terroristici” stanno  approfittando del caos per farsi strada. Di qui la sollecitazione dei Sei a rimettere in carreggiata il processo di pace e a lavorare nell’ottica di formare “un governo di transizione che rappresenti tutti i libici” e che si occupi di indire “credibili elezioni parlamentari e presidenziali”. Approfondisci su Al Jazeera.

 

L’Argentina designa Hezbollah come organizzazione terroristica. Non è l’unico passo deciso da Buenos Aires, che ha anche ordinato di congelare gli assetti finanziari del gruppo che è accusato di aver organizzato due attentati terroristici in Argentina: quello del 1994 ad un centro ebraico della capitale che ha causato 85 morti e più di trecento feriti ed è considerato il più letale atto di antisemitismo commesso dopo la seconda guerra mondiale, e quello del 1992 all’ambasciata israeliana che ha ucciso più di venti persone. Hezbollah è stato incluso in un registro pubblico di entità o persone sospettate di nutrire legami con terroristi sulla base di informazioni prodotte dall’Onu, dalla magistratura argentina e dall’Unità di Informazione Finanziaria (UIF), che è l’agenzia argentina di contrasto del riciclaggio. Per il ministro della Giustizia Germán Garavano, le mosse decise dal suo governo hanno “un valore simbolico” per un Paese che non è ancora riuscito a fare giustizia per due fatti di sangue clamorosi quanto odiosi. Molti, inoltre, le hanno inquadrate come un segnale nei confronti degli Usa, il cui Segretario di Stato Mike Pompeo ha fatto tappa proprio in Argentina il giorno dopo della decisione contro Hezbollah per partecipare ad un convegno sul controterrorismo e rendere omaggio alle vittime dell’attentato del 1994 in occasione del suo venticinquesimo anniversario. Il giorno prima del passo compiuto dall’Argentina, il Dipartimento del Tesoro Usa aveva varato delle sanzioni contro Raouf Salman, un alto esponente di Hezbollah accusato di aver pianificato la strage del 1994 nonché, come recita la dichiarazione rilasciata dal Tesoro americano, di aver diretto nel periodo successivo “operazioni terroristiche per Hezbollah nell’emisfero occidentale”. Su Salman pende adesso una taglia da 7 milioni di dollari.  Approfondisci su New York Times.

 

Scambio di prigionieri Russia-Ucraina. L’accordo, di cui avevano discusso al telefono la settimana scorsa il presidente ucraino Zelensky e il suo collega russo Putin e che è stato negoziato nei giorni successivi nell’ambito dei colloqui del Gruppo Trilaterale di Contatto a Minsk, riguarda un totale di 277 uomini catturati nella zona degli scontri tra separatisti e lealisti nell’Est dell’Ucraina. Come ha spiegato  all’agenzia Reuters un funzionario del governo di Kiev, Roman Bezsmertny, l’Ucraina restituirà alla Russia 208 prigionieri custoditi nelle carceri ucraine, e sarà ricambiata da Mosca con il ritorno in patria di 69 ucraini. Non è stata resa nota la data in cui avverrà lo scambio, che per Bezsmertny  richiederà diversi mesi di preparazione. L’ultimo scambio di prigionieri tra Ucraina e Russia risale al dicembre 2017, quando Kiev consegnò a Mosca più di 300 uomini e ne ricevette una settantina. Il Gruppo Trilaterale di Contatto è un organismo istituito per propiziare una risoluzione diplomatica del conflitto nel Donbass. Oltre a Russia e Ucraina, ai suoi lavori prende parte l’OSCE, che ha il compito di monitorare il cessate il fuoco del 2015. Approfondisci su Reuters.

 

Per Pompeo la persecuzione degli uiguri è “la macchia del secolo”. Intervenendo ad un convegno sulla libertà religiosa ospitato in America cui hanno preso parte i delegati di 106 Paesi, il Segretario di Stato ha affermato che nella regione occidentale cinese dello Xinjiang sta avendo luogo “una delle peggiori crisi umanitarie del nostro tempo”. Il capo della diplomazia Usa ha anche accusato Pechino di aver esercitato pressioni su varie nazioni affinché non partecipassero al convegno. “Tutto ciò”, si è domandato Pompeo, “è coerente con la tutela del credo religioso affermata direttamente nella Costituzione cinese?”. All’iniziativa era presente anche il vicepresidente Mike Pence, che ha assicurato che le trattative in corso tra gli Usa e la Cina non impediranno a Washington di difendere la libertà religiosa nell’ex impero di mezzo. “Qualunque cosa scaturisca dal nostro negoziato con Pechino”, ha detto Pence, “potete stare sicuri che il popolo americano sarà solidale con i popoli di tutte le fedi nella Repubblica Popolare Cinese”. Le affermazioni di Pence e Pompeo arrivano dopo che Donald Trump, il giorno prima, aveva incontrato alla Casa Bianca le vittime di persecuzioni religiose in Cina, Turchia, Corea del Nord, Iran e Myanmar e altri Paesi. Pronta e scontata la reazione di Pechino: al consueto briefing con i giornalisti, il portavoce del Ministero degli Esteri Lu Kang ha detto che in Cina “questa situazione di cosiddetta persecuzione religiosa non esiste”. “Chiediamo che gli Stati Uniti”, ha aggiunto Lu, “considerino correttamente le politiche religiose della Cina e la situazione della libertà religiosa in Cina, e la smettano di usare il tema della religione per interferire negli affari di altri Paesi”. Approfondisci su Reuters.

 


SEGNALAZIONI

  • “Netanyahu makes history as Israel’s longest-serving leader”: l’articolo di Aron Heller per l’Associated Press.
  • “Shinzo Abe Is Set to Become Japan’s Longest-Serving Prime Minister”: l’articolo di Alastair Gale sul Wall Street Journal.
  • “How a Boris Johnson cabinet could shape up”: l’articolo del Guardian
  • “Von der Leyen rows back on ‘United States of Europe’”, l’articolo di Zia Weise su Politico.eu.
  • “China signs secret deal to use Cambodian naval base: report”: l’articolo di Rebecca Klar su The Hill.
  • “Iraq plans to launch pipelines to export oil through Jordan, Syria”: l’articolo di Omar Sattar su Al-Monitor.
  • “El Chapo complained about New York jail. Let’s see how Supermax works out”: l’articolo di John Bacon su Usa Today.
  • “TikTok is China’s next big weapon”: l’articolo di Shane Savitsky su Axios.

 


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