Nessuno aiuta i cristiani perseguitati nel mondo. Quante volte abbiamo sentito questa accusa? Eppure c’è un antico popolo di religione cristiana, gli armeni del Nagorno-Karabakh, che proprio in queste settimane è stato costretto a fuggire dalla propria patria ancestrale dopo l’offensiva militare dell’Azerbaigian. Praticamente l’intera popolazione, stimata in circa 120.000 abitanti, ha dovuto da un giorno all’altro abbandonare la propria casa e i propri averi per rifugiarsi nella vicina Armenia dopo una marcia durata giorni a bordo di auto incolonnate nell’unico corridoio che unisce i due territori. Nonostante la portata di questa crisi umanitaria, i governi occidentali sono rimasti in silenzio, e c’è già chi insinua che abbiano taciuto per no compromettere le cospicue forniture energetiche che l’Azerbaigian assicura all’Europa. “È un’indifferenza che raddoppia il nostro dolore”, sottolinea Daniel Temresian, esponente della piccola ma combattiva comunità armena della nostra regione composta da appena una trentina di famiglie. “Eppure gli armeni”, rimarca, “non solo sono cristiani, ma sono un popolo che ha adottato questa religione fin dal quarto secolo”. Come tutti gli armeni oggi, anche Temresian, che abita a Pasian di Prato dove ha fondato l’Associazione armena Zizernak (“Rondine”), sta rivivendo “quello che è successo nel 1915 con il genocidio per mano dei turchi – il primo della storia – che uccisero barbaramente un milione e mezzo di armeni”. Anahit Sahakyan, socia di Zizernak, è export manager di un’azienda di arredamenti di Ceggia, in provincia di Venezia. Sua nonna novantenne viveva fino al 19 settembre in un villaggio del Nagorno, che per nove mesi è stato isolato a causa del blocco imposto dagli azeri e durato nove interminabili mesi. “Adesso la nonna”, racconta, “si trova a Erevan, a casa di mia sorella. Ha sofferto molto durante l’assedio, non arrivavano né cibo né medicinali, e mancava anche la benzina per andare a cercarli in altri villaggi. Ma la nonna non voleva andare via. Dieci giorni fa, invece, è dovuta scappare ed è stata aiutata dai vicini di casa. Il loro viaggio è durato sei giorni e sei notti, hanno dormito nella macchina, mancava tutto”. Come per qualunque armeno della diaspora, anche per Anahit, discendente diretta di persone che si salvarono da quel pogrom, è impossibile non istituire un paragone tra i fatti di oggi e di allora. “Quando eravamo bambini – ricorda – e ci raccontavano di quello che è successo al nostro popolo, su di noi calava il terrore. Ad addolorarci in particolare è stato il silenzio del mondo. All’epoca non c’erano i mass media, l’informazione non circolava come oggi, adesso però si sta ripetendo la stessa situazione: il mondo non vuole vedere”. Per questa donna tenace, fiera della propria identità che è fatta di radici profonde ma anche di un’italianità convinta maturata nel suo lungo soggiorno nel nostro Paese, non c’è spazio per la rassegnazione: “la nostra fede ci impedisce di perdere la speranza”. Anche Temresian non vuole apparire pessimista al pensiero della cacciata del suo popolo da parte di un altro popolo con una cultura e una religione diversa. “Non si può cancellare un’identità millenaria. Noi nel Nagorno c’eravamo, ci siamo e continueremo ad esserci”.
Marco Orioles