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La Cina, i crimini contro l’umanità e il pretesto della lotta al terrorismo

Pubblicato il 04/09/2022 - Messaggero Veneto

Ora è chiaro perché Pechino ha tentato in tutti i modi di impedirne la pubblicazione. Ma l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet, ligia al suo dovere, ha atteso gli ultimi minuti prima della scadenza del suo mandato per diffondere quel rapporto di 48 pagine che accusa la Cina di “crimini contro l’umanità”. I fatti sono noti da tempo e riguardano la repressione sistematica della popolazione uigura di fede musulmana, circa 13 milioni di persone, che vivono nella provincia occidentale cinese dello Xinjiang. Ora però quella che era una massa di testimonianze e documenti raccolti da Ong e attivisti di tutto il mondo ha il timbro del Palazzo di Vetro, che nonostante le pressioni subite non ha esitato, nel suo rapporto, a definire “credibili” le accuse di “gravi violazioni” dei diritti umani nello Xinjiang e a sollecitare una “urgente attenzione” da parte della comunità internazionale. Quel che gli ispettori Onu hanno scoperto dopo scrupolose verifiche è ben riassunto in una delle conclusioni del dossier, dove si afferma che “la portata della detenzione arbitraria e discriminatoria degli uiguri e di altri gruppi a maggioranza musulmana … può costituire crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità”. Era tutto vero dunque quello che ricercatori e giornalisti indipendenti come Adrian Zenz e Laura Harth hanno denunciato per anni a gran voce, mentre Stati Uniti, Unione europea, Canada, Gran Bretagna aggiungevano la propria condanna per quello che, secondo l’opinione ufficiale del Dipartimento di Stato Usa, si configura come un tentativo di “genocidio” della popolazione uigura. Sebbene il rapporto dell’Alto Commissario non si spinga fino a definire un genocidio quanto sta accadendo nello Xinjiang, la sua lettura non lascia dubbi sulle pratiche criminali messe in atto in quella regione. Sono comprovati casi di “torture, crudeltà e comportamenti degradanti e umilianti” nonché il tentativo di cancellazione dell’identità etnica e culturale attraverso una campagna di rieducazione che passa attraverso il trasferimento forzato in cosiddetti ‘centri di formazione professionale’ che sono in realtà veri e propri campi di detenzione in cui si pratica un orwelliano lavaggio del cervello. Di fronte a queste evidenze, la Cina ha reagito al suo solito: Liu Yuyin, portavoce della missione cinese presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha accusato l’Alto Commissario di “diffamare e calunniare la Cina, interferendo negli affari interni della Cina”. Ma è ovvio che, dopo i resoconti dettagliati e circostanziati delle Nazioni Unite, le relazioni della comunità internazionale con Pechino non dovrebbero essere all’insegna del business as usual. È legittimo tuttavia il sospetto che le 48 pagine del dossier cadranno nel vuoto in molte parti del mondo in nome di quella Reapolitik che spesso induce a sorvolare sugli scheletri nell’armadio del partner. Ma non si può accettare che ci sia un Paese che, con il pretesto della lotta al terrorismo, rispolveri l’abominio dei campi di stampo nazista e si spinga sino a cancellare le radici di un popolo.

 

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