Attingendo al lessico cinematografico, potremmo definire quello che si celebrerà il prossimo 21 settembre “il referendum più pazzo del mondo”. Questo perché, anzitutto, ad essere rimasto a sostenerlo è solo quel M5S che negli ultimi mesi si è trasformato in una Bolgia in cui si parlano più lingue che a Babele, inclusa quella del no al referendum. Quanto ai partner di governo che, dopo la formazione dell’esecutivo giallorosso, votarono in quarta lettura al parlamento il disegno di legge da essi bocciato precedentemente per tre volte, anche tra loro si contano sulle dita di una mano le personalità che si stanno esponendo per le ragioni del Sì. La ragione di questa situazione non è semplice da riepilogare, dati i tormenti di questa estate politica che ci hanno regalato turbolenze da una parte all’altra sottraendo ulteriore coerenza ad un quadro politico già di per sé scarsamente decifrabile. Ma se c’è un motivo per cui la spinta referendaria si sta affievolendo è l’affiorare della consapevolezza che questa consultazione si configura, come disse quel tale, come una “schifezza”. Di fatto, cedendo l’estate scorsa alle pressioni grilline che pretendevano l’appoggio al loro referendum come condizione per la nascita del Conte 2, i partiti che inizialmente si sono accodati hanno consapevolmente lasciato che si compisse l’atto supremo di quella sindrome antipolitica che perseguita la Repubblica italiana dal lontano 1992. Unendo i loro voti a quelli dei seguaci di Grillo, partiti come il Pd – non si sa quanto a ragion veduta – si sono dati loro stessi la zappa sui piedi dando ragione a tutti quei cittadini che, a sproposito, intravedono un nesso tra i costi della politica e la sua efficienza e hanno predicato per anni l’annichilimento della politica italiana. In questo modo, ci ritroviamo sulla soglia di un voto che, in caso di vittoria dei Sì, porterà ad un forsennato taglio lineare del numero dei rappresentanti senza che i proponenti abbiano apportato quei correttivi che altre forze politiche, Pd in primis, hanno chiesto per evitare che la riforma comporti il malfunzionamento di un organo politico fondamentale come il parlamento. Non vi saranno solo problemi, come hanno segnalato i costituzionalisti, nella formazione delle commissioni parlamentari e nell’elezione del Presidente della Repubblica, ma ci ritroveremo ad essere un Paese in cui il rapporto tra rappresentanti e rappresentati è tra i più bassi d’Europa. Resta ancora non sbrogliato, inoltre, il nodo della riforma della legge elettorale, che se votata come tale aggraverebbe il groviglio che verrebbe a crearsi nelle Camere dopo le elezioni. Quello di questo referendum è dunque un gran brutto affare, aggravato dall’ìmpossibilità, per qualunque partito dotato di spirito di sopravvivenza, di innalzare la bandiera del no. Sarà difficile, soprattutto in extremis, convincere i cittadini ancora non obnubilati dal populismo che questa riforma non è quella di cui questo Paese ha bisogno, e che anzi ci procurerà parecchi guai. Quando e se il sì avrà trionfato il 21 settembre, sapremo chi ringraziare per aver dimidiato irrimediabilmente la democrazia. E tra essi non ci sono solo i nomi dei seguaci del verbo stellato.
In agenda il voto più pazzo del mondo
Pubblicato il 03/09/2020 - Messaggero Veneto
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