di Marco Orioles
Ieri è stato il giorno della Cina. A Roma, nella solenne cornice di Villa Madama, il capo del governo Giuseppe Conte, il vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio e i titolari di numerosi altri dicasteri hanno presieduto, sotto lo sguardo attento del presidente cinese Xi Jinping, alla firma di ventinove accordi economici con il Dragone.
C’era, tra i documenti siglati, anche il Memorandum of Understanding (MoU) con cui abbiamo aderito all’ormai famosa Belt and Road Initiative (Bri). C’erano poi le intese specifiche sui porti di Genova e Trieste, diventati ufficialmente i terminali della Via della Seta marittima. E tanti altri accordi tra importanti realtà economiche cinesi e italiane pubbliche e private.
Un successo, insomma, prontamente rivendicato da un orgoglioso Di Maio che, mutuando la parola d’ordine del trumpismo, ha intonato lo slogan “Italy First”. Già cenerentola europea nei rapporti economici e commerciali con l’ex Celeste Impero, il Belpaese ha ora una chance per accrescere la propria penetrazione in Cina, immenso mercato dalle allettanti potenzialità per il Made in Italy.
L’inchiostro sui documenti firmati a Palazzo Madama non si era ancora asciugato quando Start Magazine ha sentito Matteo Bressan, direttore dell’Osservatorio per la Stabilità e la Sicurezza del Mediterraneo allargato dell’Università di Roma LUMSA. Bressan è il classico uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto per commentare le intese raggiunte con Pechino. E per mettere in evidenza, soprattutto, il senso profondo di questo abbraccio italo-cinese, la sua valenza nel quadro di un sistema internazionale profondamente mutato da quando la Cina è diventata, da paese in via di sviluppo, attore globale in grado di condizionare gli equilibri di potere nel mondo.
Anzitutto, Bressan, quel che è successo ieri a Roma conferma quel che ha sottolineato Mattarella, ossia che gli accordi che abbiamo firmato con la Cina sono a due vie, mutualmente vantaggiosi?
Sia in campo delle costruzioni che in quello energetico, ricorre la possibilità di cooperare in paesi terzi e con altri paesi già coinvolti nella via della Seta. Questo può voler dire cooperare in Africa come in Asia centrale. È questa l’arena nella quale la nostra diplomazia ha lavorato negli ultimi anni. L’Italia ha sempre guardato a incrementare i suoi rapporti con la Cina e a potenziare le capacità infrastrutturali dei porti del Mediterraneo, che dopo l’allargamento del canale di Suez ha visto duplicare il volume di merci che vi transitano. Questo è un tema che è sempre stato guardato con preoccupazione dai paesi del Nord Europa, che temono che il Mediterraneo possa diventare l’hub per il transito di queste merci e vedono un potenziale concorrente nei porti dell’area mediterranea che ad oggi movimentano insieme molto meno di Rotterdam, Amburgo e Anversa. Si chiama competizione economica, e ci sta.
Certo è che a questi accordi si arriva dopo un dibattito segnato dagli allarmi di Washington e Bruxelles e dai timori di una deriva geopolitica di un paese, l’Italia, che pare sul punto di abbandonare la fedeltà euroatlantica per fiondarsi nel carro della superpotenza n. 2.
Gli accordi di ieri arrivano in un contesto internazionale profondamente mutato. Un contesto che oggi è molto più centrato su una competizione in diversi campi tra Stati Uniti e Cina. Dietro le apparenze, però, scopriamo che c’è una frattura profonda tra Stati Uniti da una parte ed Europa e Cina dall’altra. Se per esempio guardiamo agli accordi sul clima, vediamo che Europa e Cina sono più in sintonia rispetto alla posizione Usa. Il fatto che nei documenti programmatici della Bri e in parte anche tra le righe del Mou ci sia un riferimento costante all’ambiente, è un segnale di diverse vedute rispetto agli Usa. La frattura tra Europa, Cina e Usa la riscontriamo anzitutto qui, ma non solo qui. Fece scalpore due anni fa il discorso di Xi Jinping al Forum di Davos, dove il Paese ad economia pianificata parlò di multilateralismo e apertura dei mercati. Impossibile non pensare qui agli scontri tra Trump e l’Europa, ad esempio sulla Nato.
Certo è che gli Usa non hanno preso bene la nostra adesione alla Bri. Quando hanno denunciato che quelli cinesi sono in realtà investimenti predatori, l’hanno fatta fuori dal vaso?
Gli allarmi americani non sono da leggere sul piano degli investimenti e dei rapporti commerciali. Riguardano una lettura critica che Washington fa di un documento che non ha una valenza di trattato internazionale ma esprime una serie di enunciati con caratteristiche politiche. Washington è poi allarmata rispetto al tema delle comunicazioni e del 5G. Su questo tema, l’Italia ha però fornito delle risposte chiare, da una parte con il rafforzamento del Golden power, dall’altra con i paletti molto forti, chiari e stringenti ribaditi da Mattarella. Con i suoi interventi, Mattarella ha richiamato l’attenzione su aspetti molto importanti come maggiore trasparenza, più apertura del mercato cinese, più reciprocità. Questa è la cornice all’interno della quale si possono rendere compatibili l’interesse nazionale e la sicurezza degli alleati.
Il ministro Salvini però – che ha platealmente disertato la cerimonia di ieri a Villa Madama – non sembra però aver digerito questi accordi, tanto che ieri si è premurato di sottolineare piccatamente che la Cina non è un’economia di mercato.
Che l’Europa non abbia riconosciuto alla Cina lo status di economia di mercato lo sapevamo da prima della firma del MoU. Il punto che non possiamo dimenticare è che, ben prima che arrivassimo noi, ci sono stati una serie di accordi commerciali importanti di altri Paesi europei con la Cina. Si veda la Germania, o la Polonia, che hanno ottimi rapporti e scambi commerciali con la Cina. Non si può negare che ci siano paesi che negli ultimi trent’anni hanno investito massicciamente in Cina, con una proiezione politica importante, con visite di Stato continue. Noi arriviamo buoni ultimi. Ma abbiamo recuperato con la continuità delle visite fatte da Mattarella, dall’ex premier Gentiloni e da tanti altri ministri italiani. Questo conferma l’attenzione del nostro paese per un mercato dove ci sono senz’altro margini di crescita per noi.
L’attenzione che stiamo riservando alla Cina è la naturale conseguenza del ripensamento del nostro ruolo nel mondo al di là delle appartenenze tradizionali e del nostro essere parte integrante dell’asse euratlantico?
Noi scontiamo un deficit di consapevolezza su quale sia, al di là degli slogan, il nostro ruolo in un mondo molto più complesso di quello della Guerra Fredda e di quello post-1989. È un mondo totalmente diverso, in cui noi dovremo assumerci più responsabilità. Noi siamo al centro di un Mediterraneo profondamente instabile, con più di uno Stato fallito, con la crisi migratoria, la minaccia dell’Isis e di al Qa’ida. E il Mediterraneo poi, non dimentichiamolo, è al tempo stesso regione dalla quale deriva più dei tre quarti della nostra capacità economica, e da cui passano le forniture energetiche grazie alle quali il nostro paese si regge in piedi. Tutti questi elementi fanno sì che noi, quanto prima, dobbiamo aprire un adeguato dibattito sul nostro ruolo. In ambito Nato questa riflessione è stata fatta. Finalmente, dopo anni, il fronte Sud ha assunto pari dignità rispetto a quello dell’Est. Avere a Napoli presso il Joint Force Command una struttura che analizza, studia e si relaziona con i paesi africani è un successo importante per il nostro paese.
In conclusione, secondo lei la Cina è diventata oggi quello che erano gli Stati Uniti 25 anni fa, ossia la “nazione indispensabile”?
Questo mi fa pensare al termine chiave delle relazioni internazionali di 25 anni fa, quando si impose il famoso “momento unipolare” degli Stati Uniti. Che fu qualcosa di eccezionale. Allora, la Russia era fuori dai giochi, e la Cina un paese sostanzialmente povero che non aveva la capacità di pensarsi come attore globale. Io credo che quello di oggi resta un mondo unipolare: basta pensare alla spesa militare, in cui gli Usa sono ancora saldamente in testa. Tuttavia, almeno in alcuni dossier questo è un mondo che ha dinamiche da 1+2. È un mondo in cui sta avendo luogo un rimescolamento degli equilibri di potenza. Questo non significa che i nuovi protagonisti come la Cina abbiano la capacità di imporre a tutto il resto del mondo la loro agenda. Significa però che, dove possono, questi attori pongono una pressione internazionale per far avanzare la loro agenda.