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Il dilemma del moderato Rouhani e il ruolo delle donne. L’analisi di Orioles

Pubblicato il 02/01/2018 - Formiche

Il bilancio dei morti in Iran sale a 23, ma pesa assai di più: ieri a Najafabad, nella provincia di Isfahan, è stata uccisa con un fucile da caccia una Guardia della Rivoluzione. È lo sviluppo che potrebbe dare la stura alla repressione da parte del regime, o forse no: il presidente Hassan Rouhani, pur minacciando provvedimenti, ci penserà due volte prima di intervenire contro coloro i quali, sette mesi fa, hanno scritto il suo nome nell’urna, conferendogli un secondo mandato.

È una posizione difficile, quella di Rouhani. Pressato dai duri e puri del regime, che non possono tollerare una sfida alla legittimità della rivoluzione, il presidente è anche l’osservato speciale della comunità internazionale. Che ieri, per bocca dell’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini e del ministro degli esteri di Londra Boris Johnson, ha intimato a Teheran di non toccare i manifestanti.

È un dilemma, quello che i vertici della Repubblica Islamica devono affrontare nelle prossime ore. Devono misurarsi con un movimento che, cominciato con una protesta per le difficili condizioni economiche, le politiche di austerity del governo, e la corruzione endemica in un sistema dirigista fin nel midollo, ha ora assunto la fisionomia di una sollevazione contro l’intero apparato del regime. La giovane età delle persone arrestate, la maggior parte delle quali con vent’anni o poco più sulle spalle, la dice lunga sulla rottura del precario equilibrio su cui si regge la rivoluzione khomeinista, mal tollerata da una popolazione composta per la maggior parte da ragazzi e ragazze insofferenti nei confronti di un sistema che esige lealtà assoluta e dirotta gran parte delle sue risorse verso le fondazioni islamiche, risparmiate dalla stretta fiscale imposta dall’ultimo bilancio siglato da Rouhani il mese scorso. L’aspettativa popolare di una ripresa economica, innescata dalla caduta delle sanzioni seguita all’accordo sul nucleare del luglio 2015, si è infranta dinanzi alla disoccupazione crescente – 12,8% il dato ufficiale, ma la vera cifra è assai superiore – e alle montanti disuguaglianze economiche, che non toccano i privilegi dei mullah.

La protesta per il malessere economico, e per il tradimento della promessa di una uscita dal tunnel della crisi fatta da Rouhani in campagna elettorale, si fonde ora con il fiume carsico dell’opposizione ad un sistema islamico che lo stesso presidente si era impegnato a rendere più dolce. Appena la settimana scorsa, aveva fatto il giro del mondo la notizia secondo cui, d’ora in poi, le donne che violano il dress code islamico non saranno più arrestate ma costrette a frequentare dei corsi di rieducazione. Un progresso, senz’altro, ma a metà, perché, sia pur rimuovendo la pena del carcere, ribadisce l’obbligatorietà del velo, simbolo di un’ortodossia imposta dall’alto che mal si concilia con l’anelito di libertà di un popolo più occidentalizzato di quanto il regime sia disposto ad ammettere.

Appare più che una coincidenza, in questo senso, l’arresto effettuato giovedì scorso – lo stesso giorno in cui, a Mashad, gli iraniani hanno cominciato a scendere in piazza – della ragazza senza velo che, in un affollato marciapiedi di Teheran, all’incrocio tra via Enghelab e via Abureihan, era salita su un piedistallo brandendo un bastone con, in cima, il suo hijab. La giovane aveva aderito all’appello di Masih Alinejad, l’esule che ha lanciato il movimento “My Stealthy Freedom”, che esorta le ragazze iraniane a farsi immortalare a capo scoperto e a postare le immagini sui social. Dal 2014, migliaia di istantanee si sono accumulate sugli account di My Stealthy Freedom, a testimoniare la massiccia adesione ad una rivolta simbolica che prende di mira il provvedimento più impopolare preso da Ruhollah Khomeini sin dai primi giorni della rivoluzione del 1978-9.

La protesta dell’anonima giovane di Teheran ha fatto proseliti: il sito di My Stealth Freedom annuncia che un’altra ragazza ne ha seguito l’esempio. E se il blocco di Instagram e Telegram deciso a capodanno dalle autorità impedisce la diffusione del contagio, non frena la volontà delle iraniane di manifestare. È di una donna la voce ascoltata ieri in piazza a Teheran dal New York Times. “Andrò di nuovo in piazza oggi”, annuncia l’intervistata.

Sono più di una, dunque, le piazze iraniane in subbuglio. Alla protesta per il carovita e la corruzione, si somma quella di chi non sopporta più le catene dell’islamismo sciita incarnato dalla Guida Suprema Ali Khamenei. Che i manifestanti, tra le altre cose, abbiano gridato “Morte a Khamenei” non è una sorpresa, ma una conferma. L’indicatore più eloquente di un sommovimento che il regime non può tollerare, e potrebbe nelle prossime ore reprimere nel sangue, come ha fatto nel 2009 con l’Onda Verde. Allora, però, alla Casa Bianca c’era un uomo, Barack Obama, che non aprì bocca per non compromettere la sua promessa di disgelo con i rivoluzionari. Oggi, a 1600 Pennsylvania Avenue risiede un presidente vulcanico come Donald Trump che, su Twitter, ammonisce che “il mondo sta guardando” e dice che in Iran “è ora di cambiare”.

Ma la Repubblica islamica non può cambiare. Se lo fa, cade. Se cede di un millimetro, crolla tutto il castello costruito dal 1979 e, soprattutto, in questi anni tumultuosi per il Medio Oriente. Anni in cui Teheran si è avvantaggiata del vuoto di potere seguito alle primavere arabe, e dell’apertura di credito dell’amministrazione Obama, primo sponsor del deal nucleare. L’Iran non può permettersi passi falsi.

Questa è l’ora più difficile, per Hassan Rouhani. Qualunque decisione prenderà, ci sarà un prezzo da pagare.

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