Thomas Friedman, firma di punta del New York Times, vola in Arabia Saudita, intervista il principe ereditario Mohammed bin Salman e se ne innamora.
Il resoconto del colloquio che il quotidiano della Grande Mela ha pubblicato giovedì (e che oggi è stato ripubblicato da Repubblica) crea però scompiglio in Medio Oriente. Per via delle aperture che il principe, noto con il suo acronimo Mbs, fa all’Islam moderato, una svolta gravida di conseguenze per un paese distintosi per aver finanziato in tutto il mondo la versione più fondamentalista della religione di Maometto. Ma anche per un tetro riferimento alla nemesi dei sauditi, l’ayatollah Ali Khamenei, bollato da Mbs come “il nuovo Hitler”. Un epiteto che provoca l’immediata replica del ministero degli Esteri di Teheran, che restituisce l’insulto con gli interessi parlando di un “avventurista” che si esprime con modi “immaturi e sconsiderati”.
Il regno dell’Arabia Saudita sta sperimentando una stagione di profondi cambiamenti, tanto nel suo interno quanto nel suo approccio col mondo esterno. A spingerli, gli impulsi di un uomo di 32 anni che il re Salmān bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd, salito al trono nel 2015, ha elevato pochi mesi fa al rango di erede, destituendo il principe bin Nayef che da allora è scomparso dai radar, forse perché agli arresti domiciliari. Già da prima, tuttavia, Mbs aveva preso saldamente in mano le redini del paese, innescando un processo di riforma che investe tutti i gangli della società saudita, dalle questione religiose, agli aspetti economici sino alla politica estera. Si moltiplicano frattanto le voci di un’imminente ascesa di Mbs al trono, attualmente occupato da un ottuagenario dalla salute cagionevole che governa solo pro forma, perché tutto il potere è nelle mani dell’ambizioso principe.
Questi sommovimenti hanno colpito l’immaginazione di Thomas Friedman, columnist della Gray Lady e osservatore di lungo corso delle vicende mediorientali. Spingendolo ad un viaggio in Arabia Saudita dove, come riferisce nel suo articolo, ha avuto l’opportunità di trattenersi per oltre quattro ore nella residenza di Mbs ad Ouja, dove ha confabulato anche con il principe Khalid, ambasciatore negli Stati Uniti, e una corte di ministri. Occasione ghiotta, per Friedman, di parlare con i protagonisti di quella che il giornalista definisce la nuova “primavera araba” del Medio Oriente. Una trasformazione diversa, nota Friedman, da quella vissuta dagli altri paesi della regione nel 2011 perché messa in moto dall’alto, e non sospinta dal basso com’è stato per la Tunisia – unica nazione che ha saputo avvantaggiarsene e che si presenta oggi con il promettente volto di una democrazia in erba – per l’Egitto e per la Libia.
Con Friedman, Mbs parla della chiacchierata purga di principi, ministri e finanzieri avvenuta all’alba di una domenica di inizio novembre. Centinaia di provvedimenti di arresto, sebbene eseguiti nelle stanze dorate del Ritz-Carlton di Riad, e confisca di beni per quella che è stata presentata come una maxi operazione anti-corruzione che molti, tuttavia, hanno interpretato come un colpo di mano da parte di Mbs, finalizzato a togliere di mezzo dei potenziali rivali nella lotta per il potere. Una versione “ridicola”, dice però Mbs a Friedman, ricordandogli come la corruzione sia una piaga endemica che, stima il principe, assorbiva il 10% dei flussi finanziari del regno. Naturale, perciò, che la riforma del regno cominciasse da qui, da una palla al piede per una potenza economica che oggi, col prezzo del petrolio ai minimi storici, è costretta a guardare altrove per tutelare la propria posizione di potenza del G20.
L’impatto più profondo della presenza di Mbs nelle stanze del potere si sta registrando però sulle questioni culturali. Hanno fatto scalpore le sue dichiarazioni di qualche settimana fa in cui annunciava di voler promuovere “un Islam moderato, equilibrato che sia aperto al mondo e a tutte le religioni, tradizioni e popoli”. Una vera e propria inversione a U per la culla del wahhabismo, la più intransigente tradizione islamica che predica, tra le altre cose, la più assoluta intolleranza verso le altre fedi e persino le versioni non ortodosse della fede ereditata da Maometto, come il sufismo o lo sciismo. Per non parlare, poi, della clausura imposta alle donne. La segregazione femminile è stata un tratto distintivo dell’Arabia Saudita contemporanea, frutto della svolta fondamentalista del 1979 quando, a seguito della rivoluzione khomeinista, il regno cominciò a gareggiare con l’Iran per guadagnarsi il primato dell’integralismo.
Ora però, Mbs regnante, l’Arabia Saudita vuole smarcarsi da questa etichetta. Lo sta facendo con provvedimenti simbolici, come la concessione del diritto per le donne di guidare, annunciata quest’estate con sommo gaudio per l’universo femminile saudita. Ma anche con atti incisivi, a cominciare dalla museruola messa all’establisment religioso custode della linea wahhabita e dal rientro nei ranghi della famigerata Hisbah, la polizia religiosa incaricata di preservare l’ordine morale nelle città. “Non scriva che stiamo ‘reinterpretando’ l’Islam”, afferma Mbs nell’intervista, “lo stiamo ‘riportando’ alle sue origini – e i nostri principali strumenti sono le pratiche del Profeta e la vita quotidiana in Arabia Saudita prima del 1979”. Per farsi capire meglio, i principi presenti al colloquio mostrano a Friedman alcune foto dell’Arabia Saudita degli anni cinquanta, che ritraggono donne non velate e persone festanti nei teatri. Un passato che ora la corte di Mbs è seriamente intenzionato a riportare in auge.
L’impronta di Mbs nella gestione degli affari del regno si sta facendo sentire anche negli affari esteri. Nella sua qualità di ministro della Difesa, il principe ha imbarcato il paese nell’interminabile guerra in Yemen, dove l’Arabia Saudita è alla testa di una coalizione che include gli alleati del Golfo e gode della partecipazione “from behind” degli Stati Uniti, che contribuiscono rimpinguando gli arsenali delle potenze belligeranti e rifornendo in volo i loro aerei. Ma a distanza di quasi tre anni, il conflitto è in stallo. I ribelli Houthi continuano a imperversare nella capitale Sana’a, e hanno persino lanciato il 4 novembre un missile verso Riad che i sauditi hanno intercettato prima che colpisse l’aeroporto internazionale. “Un atto di guerra”, è stato definito dai Saud, che vi leggono le impronte digitali dei nemici iraniani e di Hezbollah, accusati di armare gli Houthi.
Nella conversazione con Friedman, Mbs nega però l’insuccesso militare in Yemen, rivendicando di aver riconquistato “l’85% del territorio”. Usa comunque il taccuino del columnist per ribadire la sua linea di contrattacco totale contro i rivali iraniani. “Abbiamo imparato dall’Europa che l’appeasement non funziona”, afferma Salman. “Non vogliamo che il nuovo Hitler dell’Iran ripeta in Medio Oriente ciò che è accaduto in Europa”. Parole durissime, che fanno scaturire l’immediata replica dell’Iran. Attraverso l’agenzia di stampa Isna, il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Bahram Qasemi, definisce “avventurista” Mbs, sostenendo che le sue sono “dichiarazioni e comportamenti immaturi, sconsiderati e infondati”. “Gli consiglio fortemente”, aggiunge Qasemi, “di pensare e valutare il destino dei famosi dittatori della regione degli ultimi anni, ora che sta pensando di usare le loro politiche e i loro comportamenti come guida”.
Sotto Mbs, le relazioni con l’Iran sono non solo al minimo storico, ma avviate verso lo scontro totale. I Saud sentono di poterselo permettere, avendo al loro fianco niente meno che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Che è, sottolinea Mbs, “la persona giusta al momento giusto”. Il capo della Casa Bianca ha lanciato numerosi segnali di empatia nei confronti dell’Arabia Saudita. Il suo primo viaggio all’estero l’ha portato proprio nel regno, dove ha firmato accordi militari miliardari. Il genero e superconsigliere di Trump, Jared Kushner, ha sviluppato rapporti strettissimi con Mbs. E la linea dell’amministrazione Trump vira nella stessa direzione dell’Arabia Saudita, ambedue intenzionate a contrastare l’egemonizzazione del Levante da parte della potenza sciita.
I prossimi mesi diranno se questo allineamento avrà sviluppi concreti o se si tratterà di una sintonia solo virtuale. Friedman, intanto, porta a casa alcune note di questa sinfonia suonata dall’Arabia Saudita al ritmo delle armi e degli umori del falco Donald Trump.