Donald Trump è arrivato oggi in Corea del Sud, seconda tappa del suo lungo tour asiatico che l’ha già condotto in Giappone e lo porterà nei prossimi giorni a toccare Cina, Vietnam e Filippine. In arrivo da Tokyo, l’Air Force One è atterrato alla base di Osan, dove il red carpet è stato posizionato per accogliere il presidente Usa e la moglie Melania, salutati sul posto dal presidente Moon Jae-in. Da lì, i due capi di Stato hanno proseguito verso la base di Camp Humphreys, a cento chilometri dalla zona demilitarizzata che separa la Corea del Sud e la Corea del Nord: il famigerato 38mo parallelo che dalla fine della seconda guerra mondiale marca il confine tra i due Paesi, tecnicamente ancora in guerra poiché il conflitto del 1950-53, che vide la partecipazione su fronti contrapposti di Stati Uniti e Cina, si è concluso senza un accordo di pace.
Il retaggio di quel conflitto pesa ancora sugli equilibri della penisola coreana, che ambisce alla riunificazione ma è costretta a fare i conti con il revanscismo militarista del Nord, già vassallo sovietico diventato poi alleato cinese e spina nel fianco della strategia asiatica degli Stati Uniti. Una strategia che si complica, oggi, con la minaccia nucleare e missilistica del Maresciallo Kim Jong-un, determinato come se non più del padre Kim Jong-il e del nonno Kim il Sung a ostacolare il tentativo del Sud di perseguire quel sogno – la riunificazione – sotto l’egida dell’alleato americano e della democrazia capitalistica. Per impedirlo, Kim è disposto a tutto, forse anche a fare ricorso a quelle armi nucleari che rappresentano il suo asso nella manica, nonché il mezzo con cui ricattare la superpotenza e soggiogare i suoi alleati del Sud e del Giappone.
Con il premier giapponese Shinzo Abe, nei giorni precedenti, sono stati questi i temi che hanno dominato l’agenda della visita di Trump. Che all’amico Abe ha fornito la sua ricetta per domare l’irrequieto Kim: comprare più armamenti americani e, con essi, distruggere in volo i missili che partono dal Nord, come quelli scagliati ad agosto e settembre che hanno sorvolato l’isola di Hokkaido gettando nel panico la popolazione. Soluzione controversa, che sicuramente non piace a Moon. Il presidente sudcoreano ha accettato a malincuore quest’estate l’installazione del sistema anti-missile Thaad di fabbricazione americana, conscio dell’opposizione della Cina che, considerandolo una minaccia alla propria sicurezza, ha risposto infatti con un boicottaggio delle imprese del Sud e del turismo cinese.
Il riarmo è opzione sgradita ad un presidente liberal di chiara inclinazione pacifista, che anche nei momenti di maggiore tensione ha teso ramoscelli d’ulivo al bellicoso vicino. Moon ha vissuto giorni d’angoscia quando, il mese scorso, Trump ha innalzato i toni della retorica con Kim Jong-un, scambiando con lui epiteti al vetriolo. Agli occhi del presidente sudcoreano, l’escalation verbale è la strada peggiore per misurarsi con una minaccia, quella del nucleare del Nord, che espone il suo paese a rischi fatali. La prima opzione sul tavolo degli strateghi del Nord sarebbe, infatti, la rappresaglia contro il Sud, alla portata delle sue migliaia di bocche da fuoco posizionate nei pressi della zona demilitarizzata. A Moon non sfuggono le stime degli analisti, per i quali sarebbero da 30 a 300 mila i sudcoreani che perirebbero nelle prime 24 ore di un conflitto tra Stati Uniti e Corea del Nord. Per non parlare dell’eventualità, tutt’altro che remota, che Kim decida, come extrema ratio, di ricorrere ai venti ordigni nucleari a sua disposizione. Una tragedia che Moon si sente chiamato ad evitare con ogni mezzo, come senz’altro ricorderà in queste ore al suo illustre visitatore.
“Alla fine tutto si risolverà, si è sempre risolto, deve risolversi”, ha detto Trump oggi ai reporter assiepati a Camp Humphrey. Manifestazione di sensibilità nei confronti dell’inquietudine di Moon, o ostentazione di sicurezza verso le “opzioni militari” che i suoi generali hanno predisposto per venire a capo del problema nordcoreano? Difficile a dirsi. Trump sottolinea però la “grande cooperazione” esistente tra lui e il pacifista Moon, che dal capo della Casa Bianca si attende più che mai prudenza e capacità di discernimento.
Tra gli argomenti di cui la coppia presidenziale discuterà stasera, nella cena a cui presenzieranno anche il segretario di Stato Rex Tillerson e il consigliere Jared Kushner, vi è anche il trasferimento del comando delle truppe sudcoreane e di quelle americane di stanza nella penisola nelle mani di un generale del Sud. Una concessione che Moon potrebbe propiziare venendo a sua volta incontro alle richieste del collega americano su un altro fronte: il commercio. Tra le priorità che Trump ha posto in cima all’agenda di questo viaggio vi è il riequilibrio del deficit commerciale del suo paese nei confronti di Giappone e Corea del Sud, potenze esportatrici che inondano i mercati americani con le proprie merci, auto nel caso del Sol Levante e elettronica di consumo in quello di Seul. Con quest’ultima, Barack Obama aveva siglato un accordi di libero scambio, il Korus, che Trump è disposto a sacrificare in nome del suo credo “America first”, proprio come ha fatto con la Trans-Pacific Partnership, il patto tra Stati Uniti e 11 paesi del Pacifico stracciato nel suo primo giorno alla Casa Bianca.
Moon dovrà districarsi in questo intreccio tra tutela della pace del suo paese e della sua florida economia, con un “deal” che possa piacere anche a Trump. Se potrà convincerlo anche a rinunciare all’uso di Twitter nel dialogo a distanza con Kim Jong-un è scommessa su cui non conviene investire nemmeno un centesimo.