Ieri la Corea del Nord ha effettuato l’ennesima, gravissima provocazione: il test di una bomba termonucleare. L’onda sismica, con magnitudo pari a 6,3 gradi, si è avvertita distintamente in tutti i Paesi vicini. Tra questi c’è il Giappone, che appena sei giorni prima aveva diramato l’allarme nell’isola di Hokkaido a seguito del lancio da parte di Pyongyang di un missile balistico che ne ha sorvolato il territorio. Lo spettro del fungo atomico, i cui effetti sono al Paese nipponico ben noti sin dal trauma di Hiroshima e Nagasaki, aleggia di nuovo nell’Estremo Oriente. L’incubo, stavolta, ha il volto di Kim Jong-un e le fattezze del suo micidiale arsenale, accumulato e perfezionato di anno in anno in barba alle sanzioni internazionali. L’odierna escalation, nella storia dei test missilistici e nucleari del Paese asiatico (quello di ieri è il sesto), pone il mondo di fronte ad un problema ostico e senza immediate soluzioni. Come reagire? In che modo relazionarsi con un Paese, la Nord Corea, che procede imperterrito con il suo programma nucleare snobbando le pressioni della comunità internazionale? Dobbiamo forse limitarci a prendere atto che al mondo vi è un uomo solo al comando che si diletta a seminare il terrore, e che nulla può essere fatto per riportarlo a più miti consigli? La strada sinora seguita dalle maggiori potenze del pianeta, in sede Onu, è stata quella delle sanzioni, finalizzate a persuadere il regime a sedersi al tavolo negoziale e a trattare. Ma le sanzioni funzionano se sono applicate senza reticenze, cosa che non è accaduta sin qui. La Cina, alleato storico di Pyongyang, obbedisce in modo intermittente al dettato delle Nazioni Unite, continuando ad alimentare l’economia del Nord con merci vitali e valuta pregiata che ne consentono la sopravvivenza e la prosecuzione del programma atomico. La strategia del presidente americano Trump, non a caso, si impernia sulla persuasione esercitata nei confronti di Pechino affinché cessi di sostenere il suo vicino e lo convinca a riaprire il negoziato interrottosi qualche anno fa. Ma questo approccio apparentemente ragionevole si scontra con gli interessi della Cina. Che non collimano con quelli del mondo, che aspira all’eliminazione della minaccia nucleare o, quanto meno, a contenerla entro i limiti degli arsenali attualmente disponibili alle potenze firmatarie delle convenzioni internazionali. La Cina è disposta a sopportare la presenza di un vicino armato fino ai denti, poiché gli scenari alternativi sono da essa ritenuti peggiori. Ciò che Pechino teme di più è infatti la riunificazione delle due Coree, che significherebbe convivere con un Paese democratico e filo-americano ai propri confini. Ma il problema ora sta sfuggendo di mano anche alla dirigenza cinese, perché nell’Estremo Oriente si avvicina ogni giorno di più il redde rationem: il deflagrare di un conflitto tra potenze dotate di armi nucleari che coinvolgerebbe anche Pechino. È giunta l’ora che la Cina, che aspira ad un ruolo di leadership mondiale, dimostri di essere una potenza responsabile che ha a cuore, oltre agli interessi propri, quelli di tutto il pianeta.
Gli interessi della Cina e lo scomodo vicino
Pubblicato il 04/09/2017 - Messaggero Veneto
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