In Primo Piano: come andrà a finire lo scontro Usa – Iran secondo Perteghella (ISPI). Per le notizie dal mondo: i finanziamenti militari Usa all’Ucraina, il ministero delle finanze israeliano non sarà alla conferenza voluta dagli Usa sulla parte economica del piano di pace tra Gerusalemme e i palestinesi, rimandati i colloqui di accessione all’UE per Albania e Montenegro del Nord.
PRIMO PIANO: COME ANDRÀ A FINIRE LO SCONTRO USA – IRAN SECONDO PERTEGHELLA (ISPI)
La campagna di “massima pressione” contro l’Iran dell’amministrazione Trump è andata incontro giovedì scorso al suo momento verità. Nell’arco di poche ore si sono registrati due episodi gravissimi – l’abbattimento di un drone Usa da parte dei Guardiani della Rivoluzione e la successiva rappresaglia americana ordinata e poi bloccata all’ultimo minuto da Donald Trump – che hanno rischiato di materializzare il timore di tutte le cancellerie mondiali di uno scontro armato tra le due potenze rivali.
Per Annalisa Perteghella, ricercatrice e responsablile del desk Iran all’Ispi di Milano, l’aspetto singolare del contrordine di The Donald è la straordinaria somiglianza con il comportamento del suo predecessore Barack Obama. Trump infatti, osserva Perteghella, “si è trattenuto proprio come Obama fece con la Siria quando si trattò di far rispettare la famosa ‘linea rossa’ da lui fissata sull’uso delle armi chimiche nella guerra civile”.
Si tratta, ovviamente, di un paradosso per un leader che “ha criticato a lungo Obama per non essere stato abbastanza audace con l’Iran. E per avere acconsentito ad un accordo, quello sul nucleare, che secondo lui ha solamente contribuito a dare all’Iran i famosi 150 miliardi di dollari che Teheran avrebbe utilizzato per le sue operazioni militari nella regione”.
Richiamare gli aerei già in posizione non è però un imperdonabile segnale di debolezza da parte del gendarme del mondo e, nella fattispecie, di un presidente non noto per essere malleabile? La risposta di Perteghella è no: quella di Trump è stata una esemplare “dimostrazione di saggezza”. È implicita, qui, la critica a quegli esponenti della sua amministrazione, in primis l’uber-falco John Bolton e il suo collega Mike Pompeo, che tifano per la linea dura.
IRAN E USA FARANNO UN PASSO INDIETRO?
Il problema adesso è capire come Iran e Stati Uniti possano “fare un passo indietro” dopo essersi trovati sull’orlo dell’abisso e dopo aver trasformato lo Stretto di Hormuz in una polveriera. Questo, secondo Perteghella, è un problema soprattutto degli Stati Uniti, che devono “trovare il modo di fare quel passo indietro senza perdere la faccia. E l’unico modo che hanno a disposizione è riprendere il negoziato con l’Iran, magari dietro le quinte”.
Ma come Washington possa innestare la retromarcia, nel momento in cui è nel pieno di una campagna che dispiega i potenti mezzi del Pentagono e quelli non meno micidiali dell’embargo economico, è questione tutt’altro che facile. La ricercatrice Ispi, tuttavia, non dispera. “Il massiccio dispiegamento di forze delle ultime settimane”, osserva, “è stato fatto con l’intenzione non di colpire l’Iran, ma di mostrare i muscoli. Muovere una portaerei o dispiegare più uomini sono misure che si prendono, più che per fare la guerra, per spaventare il nemico”.
Ed è la stessa cosa che sta facendo l’Iran, che – sottolinea l’esperta – “è bravissimo a condurre una guerra asimmetrica, come dimostra l’attacco alle petroliere di due settimane fa e l’abbattimento del drone. Questi però sono tutti segnali di avvertimento, non un preludio alla guerra: l’Iran non vuole certo attirarsi la guerra in casa”.
L’Iran non vuole la guerra con l’America, ma a detta di Perteghella starebbe solo cercando di trasmetterle “una serie di messaggi: non pensate di poterci mettere nell’angolo così facilmente. E poi, non pensate di impedirci di esportare il petrolio, perché se non lo possiamo esportare noi, faremo in modo che nessun altro lo possa fare. Non pensate, infine, di risolvere la questione in modo militare, perché noi siamo intenzionati a difenderci”.
Nemmeno gli Usa, in ogni caso, sembrano voler spingersi fino alle estreme conseguenze. Le sanzioni sul petrolio iraniano, è il loro calcolo, bastano ed avanzano per piegare gli ayatollah. Peccato che, almeno secondo Perteghella, si tratta di “un calcolo che era sbagliato sin dall’inizio. Se il loro obiettivo è costringere l’Iran a negoziare, gli Usa non lo stanno ottenendo, anzi stanno ottenendo l’esatto contrario. L’Iran non negozia sotto pressione. Non lo può anche per motivi che affondano nella storia del Paese, fondato sulla resistenza contro l’imperialismo statunitense”.
UNICA SOLUZIONE: CANCELLARE LE SANZIONI
Come se ne esce dunque? Secondo Perteghella, in unico modo: “cancellando le sanzioni. L’Iran chiederà a Trump, se non l’ha già chiesto, di poter tornare ad esportare il proprio petrolio. E Trump dovrà concederglielo, perché si è visto il risultato delle sanzioni: non hanno portato ad altro che al rischio di una guerra”.
Le sanzioni, sottolinea la ricercatrice, “non stanno funzionando. Non dimentichiamo”, spiega, “che sono uno strumento, e non un fine in sé. Sono, nel caso specifico, uno strumento per costringere l’Iran a tornare al tavolo negoziale. E, da questo punto di vista, non stanno funzionando e non possono funzionare. L’Iran ha infatti dimostrato che, prima di cedere, farà pagare tutto quel che può far pagare agli Stati Uniti. Secondo me dunque cederanno prima loro”.
Come possono però gli Usa di Trump fare un passo indietro senza rovinare la propria reputazione? È un problema che non sfugge a Perteghella, convinta che “se Trump domani annunciasse di voler togliere le sanzioni, sarebbe uno smacco enorme”. Dunque? Quale scenario si prospetta?
“Posto”, risponde l’esperta, “che nessuno dei due Paesi vuole la guerra, lo scenario più probabile è che l’Iran accetterà di tornare al tavolo negoziale per discutere, oltre che del nucleare, anche delle altre cose che stanno a cuore agli Usa, come il programma missilistico. In cambio, però, otterrà il sollevamento delle sanzioni sul petrolio. Questo sarebbe un compromesso che permetterebbe ad entrambi i Paesi di salvare la faccia e fermare un’escalation che nessuno vuole”.
Se la prospettiva è questa, quale ruolo può ritagliarsi l’Europa? “L’Europa”, osserva Perteghella, “ha messo in chiaro sin dal principio di non essere d’accordo con la strategia di Trump. Nonostante ciò, non ha potuto far altro che adeguarsi, interrompendo i rapporti economici con Teheran”.
L’Ue però ha anche messo in campo Instex, uno Special Purpose Vehicle che le consentirà di continuare a commerciare con Teheran aggirando le sanzioni americane. “Quello di Instex”, ribatte però la ricercatrice, “è stato soprattutto un messaggio politico, visto che lo strumento non è ancora operativo e che di fatto non servirà a nulla. Potrà infatti essere utilizzato solo per il commercio umanitario, mentre quello che serve all’economia iraniana è vendere petrolio”.
Da quest’ultimo punto di vista, l’Europa non può fare secondo Pertgehella “assolutamente nulla, visto il potere di ricatto che hanno gli Usa sulle aziende europee. Se l’America infatti minaccia di precludere l’accesso al suo mercato, nessuno vuole correre questo rischio”.
L’Europa è insomma tagliata fuori da una partita nella quale sono in gioco molti suoi interessi. “Quello che l’Europa poteva fare”, è l’amara conclusione della nostra intervistata, “l’ha già fatto, e non è molto. Tanto che a mediare in queste ore tra Stati Uniti ed Iran pare siano l’Oman, che è il classico mediatore regionale nonché canale di dialogo tra i due Paesi, e la Svizzera, che non è membro dell’Ue ed è il Paese che tradizionalmente cura gli interessi americani in Iran. L’Europa è insomma relegata ai margini.
TWEET DELLA SETTIMANA
İstanbul Büyükşehir Belediye Başkanlığı yenileme seçimi sonuçlarının İstanbul'umuz için hayırlara vesile olmasını diliyorum. Milli irade bugün bir kez daha tecelli etmiştir. Gayrı resmi sonuçlara göre seçimi kazanan Ekrem İmamoğlu'nu tebrik ediyorum.
— Recep Tayyip Erdoğan (@RTErdogan) June 23, 2019
Riconoscendo la (bruciante) sconfitta subita dal suo partito AKP alle elezioni comunali di Istanbul, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è congratulato ieri sera, a risultati ancora non ufficializzati, con il nuovo sindaco della città sul Bosforo, Ekrem İmamoğlu.
NOTIZIE DAL MONDO
Dagli Usa 250 milioni di dollari di aiuti militari e armi “letali” per l’Ucraina. Lo ha annunciato martedì il Pentagono, precisando che l’equipaggiamento che prenderà la strada di Kiev comprende fucili di precisione per le forze speciali ucraine, lanciagranate, radar e attrezzature per contrastare la guerra elettronica. Approvato dal Congresso, il nuovo pacchetto porta a 1.5 miliardi di dollari il totale degli aiuti militari che l’America ha fornito all’Ucraina a partire dal 2014, l’anno in cui la Russia ha occupato la Crimea e in cui sono cominciati i combattimenti nel Donbass. Sembrano venute meno le esitazioni che avevano contraddistinto tanto l’amministrazione Obama quanto (almeno all’inizio) quella guidata da Donald Trump, convinti che mandare armi letali all’Ucraina avrebbe provocato l’ira del Cremlino. Già nel 2017, del resto, la Casa Bianca aveva autorizzato l’invio di missili anti-carro Javelin. U.S News & World Reports osserva tuttavia che l’attuale amministrazione non ha ancora fugato i dubbi sul suo sostegno alla European Reassurance Initiative lanciata dal governo Obama. Noto anche come European Deterrence Initiative, lo schema prevede, oltre alla fornitura all’Ucraina di aiuti militari non letali e di addestratori, lo schieramento di truppe Nato presso i Paesi che confinano con la Russia, quelli baltici e la Polonia. Nell’ultimo budget della Difesa proposto dall’amministrazione Trump sono previsti tagli ai fondi per la Initiative, che sono stati tuttavia rigettati dal Congresso. Sebbene soldati americani siano presenti in una base nell’Ovest dell’Ucraina nel ruolo di istruttori, l’attuale politica Usa non consente lo schieramento di uomini nell’Est. Approfondisci su U.S. News & World Report.
Il ministro delle Finanze di Israele non sarà in Bahrein. La Casa Bianca torna sui propri passi e decide di non invitare né Moshe Kahlon né altri rappresentanti del governo israeliano alla conferenza di Manama di domani in cui sarà presentata la parte economica del piano di pace tra Gerusalemme e i palestinesi architettato dal genero del presidente Usa, Jared Kushner. La decisione arriva dopo che i palestinesi hanno scelto di boicottare la conferenza e di fare pressioni sui Paesi arabi e musulmani affinché facciano altrettanto, senza però ottenere risultati: hanno confermato la loro presenza Egitto, Marocco e Giordania (ma il ministro degli Esteri giordano ha declassato la conferenza a semplice “workshop”). Una presenza dello Stato Ebraico a Manama potrebbe ancora essere possibile: una “fonte informata sui preparativi della conferenza” ha riferito ad Axios l’intenzione dell’amministrazione Trump di invitare uomini d’affari israeliani. Secondo Federica Mogherini, che la settimana scorsa ha incontrato Kushner per parlare dell’iniziativa di Manama, l’Ue manderà solo “un funzionario di livello tecnico”. Approfondisci su Axios.
Rimandati a ottobre i colloqui di accessione all’Ue per Albania e Macedonia del Nord. Arrivata giovedì, la decisione del Consiglio Ue di rinviare i colloqui con i due Paesi balcanici sulla loro membership nel club comunitario contraddice le dichiarazioni con cui, il mese scorso, la Commissione aveva sottolineato come Albania e Macedonia del Nord avessero intrapreso le riforme richieste. Il problema è che ci sono Stati Membri – Francia e Olanda in primis – che sono riluttanti ad un ulteriore allargamento, mentre in Germania si attende ancora un voto parlamentare che dia il via libera ai colloqui. Il Consiglio ha pertanto dovuto rimandare a “non oltre l’ottobre 2019” ogni decisione, deludendo le aspettative dei leader di Tirana e Skopje, che avevano fatto ripetutamente tappa a Bruxelles nelle ultime settimane per perorare la causa dei loro Paesi, ma anche quella delle 13 nazioni – tra cui l’Italia, l’Austria e l’intero blocco dell’Est – che la settimana scorsa avevano pubblicato un appello a favore dell’apertura immediata dei colloqui. Sono dunque risultate vane le esortazioni del primo ministro macedone Zoran Zaev, che il mese scorso aveva avvertito che un ritardo avrebbe causato la caduta del suo governo e l’avvento al potere di forze nazionaliste ed euroscettiche, e quelle del premier albanese Edi Rama, per il quale un fallimento avrebbe fatto crescere la sfiducia dei suoi connazionali verso l’Ue. Il Commissario all’allargamento Johannes Hahn ha comunque dichiarato di essere “estremamente fiducioso che a ottobre otterremo la luce verde”, ammonendo i 28 a non cadere preda di “indecisione e inazione”. Approfondisci su France 24.
Per Malmstrom un accordo di libero scambio Ue-Mercosur è una “priorità numero uno”. La zarina del commercio dell’Unione lo ha affermato giovedì a Bruxelles ad un evento del think-tank Bruegel, dove ha spiegato che un accordo con il blocco sudamericano, che comprende Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay ed è il quarto più grande al mondo, potrebbe essere concluso entro il mandato dell’attuale Commissione Europea, che scade alla fine di ottobre. Rimangono in piedi, ha sottolineato Malstrom, “alcune questioni complicate” come l’agricoltura, notoriamente tema delicato nel Vecchio Continente, e l’importazione di carni, di cui l’Europa teme un’impennata. Ma, ha osservato Malstrom, “penso che ci sia una finestra per chiudere” l’intesa entro ottobre, e “io farò assolutamente il massimo”. Un accordo con il Mercosur, nota Reuters, sarebbe “il più lucrativo di sempre per l’Ue”, visto che i vantaggi sarebbero quattro volte maggiori di quelli ottenuti con gli accordi con Canada e Giappone combinati. “Sarebbe”, ha commentato Malstrom, “un segnale estremamente potente – per ragioni economiche, strategiche e politiche”. A tifare per un accordo è il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che la scorsa settimana ha reso nota la sua convinzione che la firma sia dietro l’angolo. Approfondisci su Reuters.
SEGNALAZIONI
- “Il gruppo dei 20”: il backgrounder sul G20 che si terrà a Osaka il 28-29 luglio scritto da James McBride e Andrew Chatzky per il Council on Foreign Relations.
- “I leader Ue falliscono nello scegliere i leader Ue”: l’articolo sull’ultimo Consiglio Europeo dedicato alle euronomine scritto da David M. Herszenhorn, Jacopo Barigazzi, Maia de la Baume e Rym Momtaz su Politico.eu.
- “Come l’affaire degli S-400 influirà sui legami Turchia-Nato”: l’articolo di Semih Idiz su Al Monitor.
- “L’Onu scopre che sotto l’ombrello dei talebani al Qa’da si è fatta più forte”: l’articolo di Thomas Jocelyn su The Long War Journal.
- “Perché il Venezuela ha bisogno della Russia”: il saggio di Taylor Valley su The National Interest.
- “Il pensiero di Assad: come la Siria è arrivata a questo punto, e dove vuole andare adesso il regime”: la conferenza degli ex ambasciatori in Siria della Francia, Michel Duclos, e degli Stati Uniti, Robert Ford, tenutasi il 18 giugno al Washington Institute.
Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.
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