Michael Green e Evan Medeiros – due docenti della Georgetown University – in un saggio su Foreign Affairs dicono: dietro l’angolo vi è un altro nodo che la Cina anela a tagliare nel modo più reciso possibile: quello di Taiwan.
Quel che è successo a Hong Kong la settimana scorsa, con gli abitanti della ex colonia costretti a ingoiare una draconiana legge sulla sicurezza nazionale nell’impotenza del movimento democratico e delle cancellerie occidentali, potrebbe non essere un episodio isolato.
Nella scelta del regime di piegare il movimento democratico ignorando i moniti del mondo occidentale indignato anche per il metodo autoritario con cui è stata limitata la libertà degli Hongkongers potrebbe essere però ben più che una questione marginale – un affare interno alla Cina, come ripete ad ogni più sospinto il regime – ma l’inizio di una fase del tutto nuova per Pechino che il mondo ha il dovere di osservare con attenzione e cui soprattutto ha il dovere di reagire con la massima fermezza.
Questa almeno è la tesi esposta da Michael Green e Evan Medeiros – due docenti della Georgetown University entrambi con un passato governativo alle spalle – in un lungo saggio su Foreign Affairs in cui lanciano il più cupo degli avvertimenti: una Cina che flette i muscoli e non si cura delle reazioni del mondo è un pericolo mortale per tutti anche perché dietro l’angolo vi è un altro nodo che Pechino anela a tagliare nel modo più reciso possibile: quello di Taiwan.
L’analisi degli autori comincia col sottolineare che sotto Xi Jinping la Cina ha cominciato a muoversi più disinvoltamente, senza più paura di generare timore per quanto riguarda la crescita della sua potenza militare.
Da qualche tempo a questa parte, ad esempio, Pechino ha cominciato a impiegare con una certa frequenza le proprie forze armate per compiere esercitazioni o altre azioni finalizzate ad innervosire o intimidire quei vicini con cui sono in piedi dispute territoriali: India, Giappone, Vietnam, Malesia, e Indonesia.
Freschi ad esempio sono gli incidenti nelle alte quote del confine con l’India, ma di questi giorni è anche la provocatoria esercitazione della marina cinese nelle isole Paracels, nel cuore di quel Mar Cinese meridionale che è al centro di rivendicazioni incrociate.
Nel loro saggio, Green e Medeiros sono molto chiari nell’enucleare un concetto: ogni atto di indulgenza da parte delle potenze prese di mira dalle avventure cinesi, e soprattutto da parte degli Usa, sarà interpretato dalla controparte come un segno di arrendevolezza. Ed è proprio a tale arrendevolezza che i cinesi puntano per effettuare il loro colpo di mano più ambito, fagocitando Taiwan.
Nonostante le differenze, ci sono molte cose che accomunano Hong Kong e Taiwan, non ultimo un fiero nazionalismo e l’orgoglio per le proprie istituzioni: tutte caratteristiche che Pechino considera nefaste e lesive del suo sacrosanto diritto di riportare sotto la propria ala e mettere in riga tutti i territori che considera un suo possesso.
Ultimamente, la retorica della dirigenza cinese riguardo Taiwan ha peraltro ha subito un’escalation. Sebbene a parole abbiano sempre rivendicato il diritto di annettersi l’isola, da qualche tempo a questa parte – in particolare sotto la dirigenza di XI Jinping – i discorsi dei leader sul tema hanno abbandonato ogni prudenza e si sono fatti più fieri e minacciosi.
Appare molto significative in questo senso l’omissione della parola “pacifica” accanto a “unificazione” nel discorso pronunciato dal premier Li Keqiang lo scorso maggio aprendo il Congresso del Popolo. Un’omissione che si è ripetuta pochi giorno dopo nello stesso contesto quando a parlare è stato il ministro degli Esteri Wang Yi.
Oltre ad esibire questa retorica più acuminata, la Cina ha anche intensificato le azioni volte ad isolare diplomaticamente Taiwan con tattiche che le assicurano di norma il successo: prestiti o investimenti in cambio della fine del riconoscimento di Taiwan. In questo modo negli ultimi anni Pechino è riuscito a ridurre a soli 15 i paesi nel mondo che riconoscono l’isola ribelle come paese indipendente.
Alle parole, poi, la Cina ha aggiunto anche i fatti, intensificando la pressione militare su Taiwan. A partire da gennaio l’aviazione e la marina di Pechino hanno condotto almeno dieci transiti nei pressi di Taiwan, con gli aerei che non hanno esitato in alcuni casi ad entrare nello spazio aereo dell’isola.
Fresca è poi ancora la memora di quando, correva il marzo 2019, la Cina inviò due suoi caccia al centro dello stretto di Taiwan rompendo un tabù che durava da almeno vent’anni. Da allora, inoltre, non si contano più i casi in cui i bombardieri cinesi compiono circumnavigazioni dell’isola.
Stanti queste prove di forza, gli autori del saggio si chiedono cosa resti da fare alla comunità internazionale e agli Usa in particolare per rimettere nella bottiglia il genio del minaccioso attivismo cinese.
La risposta che essi stessi si danno è che bisogna cominciare dall’ultimo atto, il varo della legge sulla sicurezza nazionale ad Hong Kong, per la quale sono auspicabili le più severe sanzioni mirate contro i dirigenti cinesi.
Il secondo passo concerne direttamente gli Usa, che vengono esortati a compattare la comunità internazionale in una forte posizione di condanna di Pechino. Qui giustamente gli autori notano con favore le iniziali dichiarazioni sferzanti da parte del G7 e, singolarmente, di Gran Bretagna, Australia e Canada. Ma suonano come note dolenti le parole non proprio come pietre dell’Unione Europea, più preoccupata di non guastare la sua relazione con Pechino che di tutelare i diritti conculcati degli abitanti di Hong Kong.
Ciononostante, Green e Medeiros esortano l’America a fare tutto quanto in suo potere per portare dalla propria parte tutte le grandi potenze e le istituzioni internazionali che contano – il G7 e l’Ue dunque, ma anche l’Asean e il cosiddetto Quad – per convincerli a coordinare le proprie politiche contro la Cina, specialmente se la situazione a Hong Kong dovesse degenerare a causa di applicazioni brutali della nuova legge sulla sicurezza.
Poi, certo, il metodo più infallibile per riportare la Cina a più miti consigli rimane la deterrenza militare. E qui gli autori non possono fare a meno di notare che la Marina Usa sembra non stare più al passo con quella cinese che nel Pacifico da qualche tempo a questa parte tende a fare il bello e il cattivo tempo. Di qui il suggerimento al Pentagono di implementare tutte le iniziative necessarie a rafforzare il dispositivo militare nel Pacifico per tenere testa alla sempre più impudente marina cinese.
Infine, resta un imperativo per l’America continuare con i rifornimenti militari a Taiwan per permetterle di sviluppare capacità militari asimmetriche tali da consentirle di respingere un’invasione Cinese o di resistere il tempo necessario perché intervenga il soccorso degli alleati. A tal fine, è indispensabile anche coinvolgere un alleato di entrambi come il Giappone perché contempli la difesa di Taiwan nella propria pianificazione militare.
Se sono queste tutte le strade da percorrere per impedire che la Cina tragga la lezione sbagliata dai fatti di Hong Kong e sia tentata da un colpo di mano a Taiwan, la via maestra rimane un dialogo strategico tra le leadership di Usa e Cina.
Per Green e Medeiros, è necessario che si torni alle fitte interlocuzioni Usa-Cina dei tempi dei presidenti George W. Bush e Barack Obama per impedire che dalle incomprensioni che dividono le due potenze possano sgorgare conseguenze spiacevoli per entrambe.