I riflessi per le maggiori compagnie energetiche come Eni, Total e non solo in Libia dopo la sconfitta di Haftar
Si fanno sentire immediatamente le conseguenze dell’uscita delle milizie di Haftar dalla Tripolitania.
A cavallo di questo fine settimana il governo di Tripoli è riuscito infatti a riavviare due importanti pozzi – quello di Sharara e quello di El Feel – che avevano interrotto l’attività quando, a gennaio, il Maresciallo a mo’ di ricatto nel bel mezzo della conferenza internazionale di Berlino impose la chiusura degli oleodotti che conducono al porto di Zawiya, azzerando di fatto l’export petrolifero libico.
La notizia più importante riguarda naturalmente Sharara, giacimento gestito da una joint venture tra la libica National Oil Corporation (Noc), la spagnola Repsol, la francese Total, l’austriaca Omv e la norvegese Equinor – che prima delle recenti vicende belliche produceva fino a 300 mila barili al giorno, ossia quasi un terzo dell’intera produzione nazionale.
A dare per prima la notizia che la produzione a Shahara sarebbe ripresa di lì a poco è stata Reuters sabato, che l’ha attribuita a due ingegneri.
Una seconda conferma è arrivata il giorno dopo attraverso un lancio di Agenzia Nova che la attribuiva stavolta a un membro della sala operativa del giacimento, che avrebbe parlato anche di un ritmo produttivo iniziale di 20 mila barili al giorno.
In un altro dispaccio, Agenzia Nova rivelava inoltre che l’attività a Shahara sarebbe ripresa grazie alla riapertura di una valvola lungo l’oleodotto che collega il sito estrattivo al porto di Zawiya precedentemente danneggiata dalle milizie fedeli ad Haftar.
Notizia, questa, che ha trovato conferma anche tra le fonti del quotidiano libico “Libya Oserver”:
An oil pipeline valve linking Hamada oilfield with Zawiya port has been reopened after months of closure by an armed group from Zintan loyal to Haftar. The pipeline also links Sharara oilfield with Zawiya port with a capacity of 350.000 bpd pic.twitter.com/ugpMkaxcQv
— The Libya Observer (@Lyobserver) June 5, 2020
Nel pomeriggio di domenica arrivava infine la conferma definitiva della riapertura di Sharara attraverso un comunicato ufficiale della Noc subito rimbalzato sui maggiori media mondiali:
Libya's El-Sharara oilfield, country's largest, resumes production: National Oil Corporation
— ANADOLU AGENCY (ENG) (@anadoluagency) June 7, 2020
Oltre a ribadire la versione della ripresa dell’operatività resa possibile dopo “lunghe negoziazioni da parte della Noc per aprire la valvola di Hamada”, il comunicato ha reso noto che “la prima fase estrattiva si assesterà sui 30 mila barili al giorno, con la piena capacità produttiva attesa entro 90 giorni”.
A rallegrarsi immediatamente della lieta novella è stata l’ambasciata Usa in Libia, che ha salutato l’annuncio della Noc come un “passo significativo in avanti affinché possa svolgere il suo cruciale mandato apolitico di promuovere gli interessi di tutti i libici”.
Nel comunicato dell’ambasciata ha trovato spazio però anche un preoccupato appello a “tutte le parti responsabili a rigettare i tentativi di militarizzare il settore energetico e sottomettere a interessi stranieri le infrastrutture critiche”.
L’inchiostro dei rallegramenti per Shahara, ma anche quello del monito Usa, non si era ancora asciugato che già un’altra notizia squarciava il panorama petrolifero libico.
A riprendere parzialmente la produzione, anch’esso dopo quattro mesi di stop, è da ieri anche il giacimento sudoccidentale El-Feel (altrimenti noto come Elephant).
Secondo quanto appurato dalle fonti di Agenzia Nova, il campo operato in una joint venture tra Noc ed Eni sarebbe stato liberato dopo lunghi negoziati condotti dalla Noc con le guardie delle strutture petrolifere e con un certo numero di leader tribali della regione.
El Feel può dunque riprendere parzialmente la produzione in vista dell’obiettivo di un ritorno quanto prima ai 70 mila barili sfornati giornalmente.
C’è grande fermento insomma intorno al petrolio libico e chi sembra scalpitare di più in questo momento è il paese i cui asset militari sono stati decisivi per la rotta di Haftar: la Turchia.
Sembra dunque tutto fuorché casuale l’annuncio fatto ieri dal ministro delle risorse energetiche turco, Fatih Donmez, secondo il quale Ankara non solo è pronta a cercare petrolio in Libia, ma a seguito di trattative svolte con il governo di Tripoli ha ottenuto, parole sempre del ministro, “licenze per 7 lotti che per tre mesi circa rimarranno sospese, poi inizieranno trivellazioni per ricerche a sfondo sismico”.
Assume dunque l’aspetto di una cupa profezia l’analisi con cui ieri il generale Carlo Jean chiariva come oramai il Sultano di Ankara si sia incoronato sovrano di Libia e dipenderà solo dalla sua volontà quali aziende potranno operare nel paese e quali no. E, se si confermerà vero, questo assunto varrà tanto nel settore energetico – dove tuttavia Jean ritiene che Eni sia “una realtà troppo radicata e apprezzata in Libia per poter essere emarginata” – quanto nella ricchissima torta della ricostruzione di un paese disastrato da oltre dieci anni di guerra
Chi non farà sonni tranquilli sono dunque i soggetti i cui nomi Umberto De Giovannangeli ha attinto dalla camera di commercio italiana in Libia per riportarli nel giornale in cui scrive.
Sono, naturalmente, le imprese italiane che operano in Libia – “il gotha dell’economia del Belpaese”, lo definisce il giornalista – attive in tutti i settori chiave: da quello delle costruzioni e delle opere civili (Impregilo e Bonatti, Garboli-Conicos, Maltauro, Enterprise) a quello della ingegneria (Techint e Technip), dei trasporti (Iveco, Calabrese, Tarros, gruppo Messina, Grimaldi, Alitalia), delle telecomunicazioni (Sirti e Telecom Italia), dei mangimi (Martini Silos e Mangimi), della meccanica industriale (Technofrigo e Ocrim); delle centrali termiche (Enel Power); dell’impiantistica (Tecnimont, Techint, Snam Progetti, Edison, Ava, Cosmi, Chimec, Technip, Gemmo).
Scrutando nella sfera del futuro, De Giovannangeli intravede dunque “il rischio, che si fa sempre più certezza (…) che il Sultano ci voglia sloggiare dalla Libia o, comunque, far dipendere la presenza italiana dai suo desiderata. Insomma, espulsi o in ginocchio”.