Che cosa dice, non dice e fa il governo Conte sul dossier Huawei-5G, mentre l’ambasciatore americano a Roma incontra il capo azienda di Tim. Il Punto di Marco Orioles
Come i lettori di Start Magazine sanno ormai molto bene, gli Stati Uniti continuano ad esercitare pressione su tutti i loro alleati affinché stacchino la spina ad Huawei, il colosso cinese delle tlc accusato da Washington di favorire il cyberspionaggio da parte di Pechino. In visita la scorsa settimana in Europa, il vicepresidente Mike Pence e il Segretario di Stato Mike Pompeo hanno ricordato ai loro ospiti la “minaccia posta da Huawei e altre compagnie telecom cinesi”. Come Pence ha sottolineato sabato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, la legge cinese sull’intelligence del 2017 richiede a tutte le aziende del Dragone “di fornire al vasto apparato sicurezza di Pechino l’accesso a qualsiasi dato che (scorre lungo) le loro reti e attrezzature”. Di qui la richiesta di Pence “a tutti i nostri partner di essere vigili” e di fare tutto quanto è in loro potere per “proteggere le nostre infrastrutture di telecomunicazione critiche”.
Di fronte all’offensiva americana contro il proprio campione nazionale dell’hi tech, Pechino ha scelto di rispondere colpo su colpo. Lunedì, così, è arrivata puntuale la replica alle parole di Pence. Il governo americano, ha affermato Geng Shuang, portavoce del ministero degli Esteri, cerca di “fabbricare una scusa per sopprimere il legittimo sviluppo” delle aziende cinesi. Impiega, cioè, “mezzi politici” per interferire nell’attività economica cinese, un comportamento che Geng definisce “ipocrita, immorale e scorretto”. “La Cina”, sottolinea Geng, “non ha richiesto e non richiederà mai alle aziende o agli individui di raccogliere o fornire al governo cinese informazioni di paesi stranieri installando backdoor o compiendo altre azioni che violano le leggi locali”. Quelle americane, insomma, sarebbero solo paranoie, o meglio, un modo scaltro per manipolare la leale competizione tra l’industria delle tlc cinese e quelle occidentali allo scopo di favorire le seconde e mettere fuori gioco la prima.
La guerra fredda tecnologica tra l’impero americano e quello cinese agita i sonni di tutti i protagonisti, incluso il fondatore e CEO di Huawei, Ren Zhengfei, costretto ad uscire allo scoperto e a difendere la reputazione e gli interessi della sua azienda. Nell’intervista rilasciata lunedì a Karishma Vaswani di “BBC News”, Zhegfei respinge seccamente le accuse degli Usa. “Il governo cinese”, afferma il patron di Huawei, “ha già detto chiaramente che non installerà alcuna backdoor. E nemmeno noi lo faremo. (…) Non abbiamo intenzione di rischiare il disgusto del nostro paese e dei nostri clienti in tutto il mondo a causa di questo. (…) La nostra azienda non svolgerà mai attività spionistica. Se facessimo qualcosa del genere, chiuderei l’azienda”.
“Gli Usa non possono schiacciarci”, è convinto Zhengfei. “Il mondo non può abbandonarci perché siamo più avanzati”, sottolinea il CEO di Huawei, ricordando uno dei punti di forza, insieme ai prezzi convenienti, della tecnologia cinese. Quindi, ricorrendo alle metafore, descrive così la serrata competizione con gli Stati Uniti e il tentativo di questi ultimi di marginalizzare la sua compagnia: “Se le luci si spengono in Occidente, l’Oriente continuerà a risplendere. E se il Nord si oscura, c’è sempre il Sud. L’America non rappresenta il mondo. Rappresenta solo una porzione del mondo”. Quand’anche l’America riuscisse “a persuadere più paesi a non usarci temporaneamente, possiamo sempre ridimensionarci”, conclude Zhengfei con saggezza tutta orientale.
Il campo di gioco di questo scontro tra titani è anche l’Europa, dove fervono come altrove i preparativi per il decollo del 5G. Le pressioni esercitate dagli Usa sui governi del Vecchio affinché impediscano a Huawei di partecipare allo sviluppo delle infrastrutture del 5G sono arrivate dappertutto, anche in Italia. Ricevendo venerdì scorso a Palazzo Chigi l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg, il ministro per lo Sviluppo Economico Luigi Di Maio si è sentito rivolgere la consueta lezioncina sui rischi derivanti da un utilizzo imprudente della tecnologia cinese. Secondo Il Messaggero, Eisenberg si sarebbe sentito rispondere che i contratti 5G sono già stati assegnati e che il governo non può né intende revocarli. Viene smentito dal Mise, insomma, il ricorso alla golden power evocato dal quotidiano La Stampa due settimane fa sulla base di fonti di Palazzo Chigi (qui la ricostruzione della vicenda).
Non potendo tuttavia liquidare i suggerimenti americani come fossero ininfluenti, Di Maio ha spiegato all’inviato degli Usa di aver appena varato un decreto che istituisce presso il Mise una Struttura che avrà il compito di monitorare la sicurezza delle informazioni che passeranno attraverso la rete 5G. L’Italia insomma non solo non respinge le raccomandazioni di Washington ma, osserva Marco Galluzzo sul “Corriere della Sera”, “si predispone ad imbastire uno scudo tecnologico, e normativo, di prevenzione, contro eventuali leaks”.
Nessuna sottovalutazione del problema, insomma, ma guardia alta a presidio della sicurezza cibernetica. Rimane, tuttavia, il sospetto di una inclinazione filo-cinese del governo gialloverde, il quale si accinge a ricevere in pompa magna il presidente Xi Jinping, atteso nel Belpaese a marzo, e a firmare con lui sontuosi contratti per la realizzazione della sezione italiana della Nuova Via della Seta, il ciclopico progetto infrastrutturale con cui Xi mira a ridisegnare l’architettura dei flussi commerciali globali. A cogliere questa propensione pro-Cina è stato, ieri, Bloomberg, che sceglie di raccogliere il parere del sottosegretario al Mise in quota Lega, Michele Geraci, proprio sul caso Huawei.
“Non vedo Huawei come un problema”, spiega Geraci, che considera l’azienda cinese “solo uno dei 25 nomi dei produttori di attrezzature da cui si può scegliere, con prezzi diversi e differente qualità”. E i moniti americani? “Gli Usa”, risponde il sottosegretario, “non dovrebbero essere preoccupati della nostra lealtà all’alleanza, all’Europa o alla Nato. (…) Se c’è un problema, possiamo essere aiutati a prendere la decisione migliore, ma non considero questo come fare qualcosa contro gli interessi dei nostri alleati Usa”. E se per gli americani la Cina è una potenza non democratica le cui leggi obbligano tutti i cittadini e le aziende a collaborare con l’intelligence, per Geraci è un “paese molto pacifico, che cerca di cibare il suo popolo. Noi nell’Occidente non capiamo cosa la Cina stia facendo e questo crea frizioni, ansietà, sfiducia”. Quelli con la Cina sono dunque derubricati a problemi culturali, una specie di nota a margine di una storia economica di successo che reca vantaggi a destra a manca, vantaggi che l’Italia, se ne desume, è chiamata a raccogliere e valorizzare rafforzando la cooperazione con Pechino.
Nel quadro di una serie di incontri con i leader italiani e americani del settore privato, #AmbEisenberg ha avuto oggi un cordiale colloquio con l’amministratore delegato di TIM, Luigi Gubitosi.
— Ambasciata U.S.A. (@AmbasciataUSA) February 20, 2019
L’Italia, insomma, fa l’equilibrista, secondo la visione americana. E si divincola tra le reprimende del nostro maggiore alleato che vorrebbe Huawei fuori dal 5G italiano e le lusinghe degli affari con la Cina. Resta da vedere se, in questo gioco, non ci scotteremo. Come ha ricordato l’ambasciatore Eisenberg a Di Maio, in Italia ci sono basi americane e Nato: una presenza che, fa capire Eisenberg, è incompatibile con un’infrastruttura di rete potenzialmente manipolabile dall’avversario cinese. Se gli Usa si impuntassero, saremmo messi con le spalle al muro. E a quel punto, Huawei non sembrerà più, per dirla con Geraci, un’azienda come tutte le altre. Sarà, invece, il punto di confine tra la nostra appartenenza all’alleanza occidentale e le nostre ambizioni economiche. Un confine che non si può attraversare impunemente senza pagare un prezzo.
Marco Orioles