Che cosa succede negli Stati Uniti alle prese con la Covid-19. L’articolo di Marco Orioles
È stata, quella di ieri, una giornata estremamente difficile per gli americani alle prese con la pandemia da Covid-19.
Era cominciata con le allarmanti parole del chirurgo generale Jerome M. Adams, che al mattino ai microfoni di NBC, prima di esortare i telespettatori a rispettare in modo ferreo la distanza sociale, ha detto loro che “questa settimana sarà brutta”.
Una settimana talmente brutta da cominciare con dati davvero inquietanti sul contagio, con il numero di casi confermati che ha girato la boa dei 40 mila e quello dei decessi che ha registrato in un giorno solo la cifra più alta – 100 – dall’inizio della crisi.
È questo lo sfondo cupo in cui altri Stati Usa si sono aggiunti al novero dei territori sigillati per Coronavirus. Con l’ingresso nella zona rossa di Washington, Indiana, Massachusetts, Michigan, Wisconsin, West Virginia e Oregon, sono diventati così 158 milioni gli americani la cui mobilità è sottoposta, proprio come in Italia, alle più severe restrizioni.
Se è praticamente tutta l’America ormai a patire le conseguenze del virus venuto da Wuhan, c’è un luogo più incandescente di tutti: è New York, la cui densità abitativa record – 28 mila residenti per miglio quadrato, contro i 17 mila della metropoli più trafficata degli States, ossia San Francisco – si sta rivelando un eccezionale propellente per il contagio.
Come ha spiegato ieri la coordinatrice della task force della Casa Bianca sul Covid-19, Deborah L. Birx, la zona metropolitana della Grande Mela è alle prese con un “tasso di attacco” cinque volte superiore a quello di altre aree urbane degli Usa.
In epidemiologia, l’espressione “tasso di attacco” viene impiegata per indicare la percentuale di una popolazione che contrae una malattia. Essendoci a New York 8.6 milioni di residenti e 12.339 casi di Covid-19, il tasso è pari a 1:700.
Ecco perché Birx sta spiegando a lungo e in largo “a tutti i miei amici e colleghi di New York” che gli sfortunati abitanti della metro0poli americana per antonomasia rappresentano “il gruppo che in questo momento ha bisogno assolutamente di distanza sociale e auto-isolamento”.
NEW: Dr. Deborah Birx says the NY, NJ, Long Island area is of special concern. She says coronavirus has an attack rate close to 1 in 1,000 in this area.
28% of submitted specimens are positive in this area.
"This is the group that absolutely needs to social distance."
— Tom Winter (@Tom_Winter) March 23, 2020
Conscio della gravità della situazione della capitale finanziaria degli Stati Uniti, Donald Trump ieri ha annunciato che vi saranno trasferite entro oggi 10 mila dosi di clorochina, il farmaco antivirale già utilizzato contro la malaria e l’artrite reumatoide di cui lo stesso presidente ha esaltato le proprietà terapeutiche in aperto contrasto con Anthony Fauci, l’immunologo che lui stesso ha voluto a capo della task force governativa anti-Coronavirus.
Peccato che una notizia giunta in giornata dall’Arizona rischi di guastare i piani salvifici del capo della Casa Bianca. Il sistema ospedaliero “Banner Health” ha riferito infatti della morte di un sessantenne di Phoenix, e dell’aggravamento delle condizioni della moglie, dopo che la coppia si era auto-somministrata il fosfato di clorochina.
Sebbene non abbia chiarito come e perché quelle dosi siano finite nel corpo dei coniugi, Banner Heath ha spiegato che “entro trenta minuti dall’ingestione, i due hanno immediatamente sperimentato degli effetti (collaterali) che ne hanno richiesto il ricovero nel più vicino ospedale”.
L’imbarazzo nel rendere noti tali fatti diventa però palese quando, nel suo comunicato, Banner Heath ricorda che la clorochina è “un additivo comunemente usato negli acquari” e non dovrebbe dunque “essere ingerita per curare o prevenire questo virus” alla stregua di altre “medicine inappropriate o rimedi domestici”.
Le brutte notizie per The Donald non finiscono qui. Anche la seconda panacea additata dal tycoon – il remdesivir, su cui anche l’OMS ha avviato un programma sperimentale – ha subito una temporanea battuta d’arresto su iniziativa di Gilead.
L’azienda farmaceutica ha deciso l’altro ieri di sospendere i trattamenti di emergenza con il remdevisir non solo in quanto subissata dalle richieste, ma soprattutto perché tali domande hanno fatto andare in tilt – come ha reso noto Gilead nel suo comunicato – “un sistema di accesso ai trattamenti che era stato messo in piedi solo per consentire un accesso limitato a farmaci sperimentali e non certo per (fornire una risposta) ad una pandemia”.
Gilead, in sostanza, non effettuerà più trattamenti d’emergenza su base individuale e a “scopo compassionevole” – fatte salve le donne incinte e i minorenni – e concentrerà tutti i propri sforzi sull’avvio di un programma ad hoc più esteso.
La formula precisa è “expanded access program” e permetterà, una volta a regime, di trattare un gruppo di pazienti decisamente più consistente nonché di effettuare quelle operazioni di raccolta e analisi delle informazioni scientifiche che non sono contemplate nelle situazioni di trattamento puramente “compassionevole” ma sono indispensabili per varare una terapia sicura al 100% e con tutti i crismi scientifici, sanitari e regolamentari.