rapporti fra Cina e Usa al tempo del Coronavirus nel Taccuino estero di Marco Orioles
Per il popolo americano, la domenica è tradizionalmente giorno delle grandi apparizioni televisive. Ieri però a informare e intrattenere l’opinione pubblica dagli studi di “State of the Union” della CNN non c’erano ministri, parlamentari o militari con le stellette, ma il n. 1 degli scienziati della task force governativa anti-Coronavirus, Anthony Fauci.
Agli americani inchiodati in casa dal Covid-19, il capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases ha spiegato che i dati in suo possesso mostrano purtroppo che tra 100 e 200 mila persone negli Usa moriranno di Covid-19.
“Voglio dire – si è spiegato Fauci – avremo milioni di casi. Ma non penso che sia necessario fare proiezioni quando l’obiettivo si muove così velocemente che puoi facilmente sbagliare e ingannare il popolo”.
Questa fosca previsione non è stata l’unica mazzata ieri per il popolo americano terrorizzato dalle conseguenze di una pandemia che ha rapidamente trasformato gli Usa nel primo focolaio mondiale, con più casi che in Cina o in Italia.
Non meno micidiale è stata la decisione annunciata da Donald Trump durante il briefing pomeridiano dalla Casa Bianca di rimangiarsi l’anelito espresso appena pochi giorni fa di riaprire tutto “entro Pasqua” e di protrarre invece il Lockdown – accogliendo così i moniti di Fauci – fino al 30 aprile, con il conseguente obbligo di attenersi per tutto il periodo alle misure di distanziamento sociale,
Quella di Pasqua, ha spiegato il tycoon, era solo una “aspirazione” che ha fatto a pugni con le proiezioni del numero di morti che gli hanno fornito gli epidemiologi come Fauci, i quali prevedono tra l’altro un picco di decessi tra due settimane.
Ma il numero che ha fatto battere la ritirata al presidente è stata la stima, partorita dai modelli matematici che non sono ignoti nemmeno a lui, dei suoi concittadini che potrebbero perdere la vita se il governo, e la società americana tutta, allentassero la presa: 2,2 milioni.
“Nulla sarebbe peggio” – è stata la conclusione di Trump dinanzi ad un numero così agghiacciante – “che dichiarare vittoria prima di aver vinto”.
Ci ha pensato la terza apparizione televisiva della giornata – quella che Deborah Brix, coordinatrice della task force del governo, ha fatto negli studi di “Meet the Press” – a dare gli ordini di scuderia: “Nessuno stato e nessun’area metropolitana saranno tagliati fuori” dalla maxi risposta messa in campo dall’esecutivo per mettere in sicurezza il territorio e proteggere la vita degli americani.
“Stiamo chiedendo ad ogni singolo governatore e ad ogni singolo sindaco”, ha incalzato Brix, “di prepararsi come si sta preparando adesso New York”, ossia l’area del Paese più colpita di tutte.
Quella di Brix, e del governo, è però una strada tutta in salita come la montagna di mascherine – stimate dal dipartimento della Salute in 3,5 miliardi – di cui ci sarà la necessità negli ospedali, cliniche e presidi medici degli Usa qualora l’emergenza si protraesse per un anno intero.
Ecco perché gli occhi dell’America sono rivolti in questo momento alla Cina, ossia al Paese che in tempi normali fornisce alla superpotenza a stelle e strisce un terzo del suo materiale sanitario.
È nell’ex impero di mezzo che stanno infatti nascendo come funghi nuove factory lines che sfornano già e a a ritmi record mascherine, guanti e altri presidi.
Ed è a Pechino che si concentreranno parte degli sforzi della partnership pubblico-privata che l’amministrazione Trump ha messo in capo al suo consigliere e genero Jared Kushner per agevolare – attraverso la strutturazione di una collaborazione con distributori specializzati come McKesson Corporation, Cardinal, Owens & Minor, Medline e Henry Schein – l’afflusso in tempi rapidi di tutto ciò che serve agli Usa per la lotta al Covid-19.
Un assaggio di tutto ciò ha fatto la sua apparizione ieri sulla pista del Kennedy International Airport di New York, dove è atterrato un cargo proveniente da Shangai con un carico che la portavoce della Federal Emergency Management Agency (FEMA), ha quantificato in 130 mila mascherine N95, 1,8 milioni di mascherine chirurgiche, 10 milioni di guanti e più di 700 mila termometri che prenderanno la strada, oltre che della Grande Mela, del New Jersey e del Connecticut.
Con il volo di ieri è ufficialmente partito il più grande ponte aereo mai messo in piedi nella storia per rifornire tempestivamente – ricorrendo cioè alla via aerea anziché a quella d’acqua che richiede non uno ma 37 giorni – di presidi sanitari un’intera nazione in emergenza.
A gestire il ponte aereo è una task force della FEMA presieduta dall’ammiraglio John Polowczyk, che alla stampa ha fatto sapere di aver già prenotato altri 21 voli tutti provenienti dall’Asia che, per due settimane con cadenza quotidiana, faranno tappa verso gli Usa.
Che farà il Pentagono per l’emergenza Covid-19?
Se e quando la Casa Bianca ricorrerà al Defense Production Act – le disposizioni risalenti alla guerra di Corea che pongono in capo al governo l’autorità su cosa e quanto le industrie Usa devono produrre – un ruolo centrale spetterà al Dipartimento che meglio di altri è predisposto a collaborare con il settore privato perché lo fa da tempo e con moltissimi attori: il Pentagono.
Il Dipartimento della Difesa è già destinatario, nell’ambito del maxi pacchetto di stimolo entrato in vigore sabato, di una dotazione di dieci miliardi di dollari.
Soldi che ora, scrive National Defense, potranno essere impiegati dal Pentagono ricorrendo al Titolo III del Defense Production Act, ossia la parte del testo di legge dove sono scritte le regole su come il ministero può sviluppare partnership coercitive con le industrie private chiamate a soddisfare le esigenze produttive connesse all’attuale emergenza nazionale.
Come ha spiegato in una nota alla stampa il colonnello Mike Andrews, “esempi tangibili” di come potrà funzionare il meccanismo riguardano tutti quei casi in cui il dipartimento individuerà quei “defense contractors” che “possono convertire le linee di produzione”, producendo per il medesimo committente non più ordigni o sue parti, ma mascherine, guanti, respiratori e altro equipaggiamento utile nel contrasto al Covid-19.
Ma il Defense Production Act offre anche altri poteri al Pentagono: quello, nella fattispecie, di costringere le industrie già sotto contratto ad aumentare la produzione per centrare determinati target – o, per dirla con le parole di Andrews, quando “siamo sotto i nostri obiettivi di acquisizione”.
Inoltre , prosegue Andrews, se tali condizioni dovessero effettivamente verificarsi, la dotazione finanziaria del Pentagono potrà essere “spesa velocemente” per le commesse urgenti affidate ai partner privati così da sostenere al meglio gli sforzi della macchina pubblica.
Infine, e sulla base della medesima logica, il Pentagono si adopererà anche per individuare le industrie sotto contratto che hanno anche linee di produzione per il mondo civile che sono state sospese a causa dell’emergenza, liberando una capacità produttiva che potrà essere sfruttata – previa l’emanazione di veri e propri “ordini militari” e l’infusione delle relative dotazioni finanziarie – per convertire quelle linee alla produzione di beni utili per la lotta al Covid-19.
Cambiamento climatico e Coronavirus: quale correlazione?
Come ben sa Gunter Pauli, il consigliere del primo ministro Conte dileggiato sui social per aver additato una possibile correlazione tra la pandemia da Covid-19 e i campi elettromagnetici generati dal 5G, le analisi scientifiche che postulano correlazioni tra il contagio e altri fenomeni richiedono, se non altro, la consueta validazione e dunque l’imprimatur di un quorum non irrilevante di scienziati.
Ecco perché, quando si passa alla correlazione più chiacchierata di tutte, quella tra Coronavirus e cambiamento climatico, l’opzione più prudente è quella di richiamare le conclusioni raggiunte da scienziati di chiara fama e dal pedigree inappuntabile come Aaron Bernstein.
Di formazione pediatra, e da qualche anno direttore dell’Harvard University’s Center for Climate, Health, and the Global Environment, Bernstein è stato recentemente citato da Axios per evidenziare alcuni nessi tra cambiamento climatico e malattie infettive.
L’inquinamento da fonti fossili, ossia il principale driver del climate change, rende anzitutto secondo Bernstein più micidiale l’impatto sulla salute umana dei virus.
Uno studio condotto al tempo della SARS (2003) appurò infatti che “le persone esposte al più alto livello di inquinamento dell’aria hanno il doppio delle probabilità di morire per la malattia di chi” non ha avuto la stessa esposizione.
Anche l’aumento delle temperature innescato dal cambiamento climatico non è senza conseguenze quando si propagano malattie infettive, sostiene Bernstein, in quanto responsabile di un mutamento dell’habitat delle mosche, ossia di quelle che furono uno dei principali vettori del contagio di Zika.
La deforestazione, infine, ha ben note conseguenze negative sugli habitat degli animali selvatici, aumentando la possibilità – segnalata sempre da Bernstein – che si avventurino in ambienti antropizzati rischiando così di propagare i virus tra gli umani.
Nel concludere questo excursus, Axios si pone un’ultima domanda che suonerà familiare a molti lettori: non è che l’aumento delle temperature rende però virus come il Covid-19 meno terribili?
La risposta, che Axios fa formulare a Paul Hunter, docente di medicina alla University of East Anglia, è che il Coronavirus potrebbe “diventare leggermente meno contagioso (…) in climi più caldi”.
Il fatto è che, pur ammettendo che esiste “un elemento di verità in questo”, Hunter “non pens(a) che si possa fare affidamento sul cambiamento climatico per salvarci dal Covid-19”.
La conclusione di Axios è insomma che i benefici “del cambiamento climatico” sulla circolazione dei virus sono poca cosa rispetto alle conseguenze negative.