In primo piano nel Taccuino Estero i risultati delle elezioni in Spagna, le violazioni all’embargo delle armi alla Libia certificate da un rapporto confidenziale Onu, il sistema anti-aereo russo in arrivo in Serbia (Usa permettendo) e il nuovo accordo di libero scambio tra Cina e Nuova Zelanda.
In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana i risultati delle elezioni di ieri in Spagna. Nella sezione “notizie dal mondo”, le sistematiche violazioni all’embargo delle armi alla Libia certificate da un rapporto confidenziale ONU, il sistema anti-aereo russo in arrivo in Serbia (Usa permettendo) e il nuovo accordo di libero scambio tra Cina e Nuova Zelanda.
PRIMO PIANO: VITTORIA MUTILATA PER I SOCIALISTI IN SPAGNA
La sintesi perfetta dei risultati delle elezioni politiche di ieri in Spagna la offrono Politico.ue e Il Messaggero: “un’altra elezione – la quarta in altrettanti anni – e un altro risultato inconcludente”, scrive Politico, mentre il quotidiano romano rileva come, a conteggio dei voti ormai completato, “a Madrid il rebus per formare il governo si presenta praticamente identico a quello prodotto dalle elezioni del 28 aprile”.
Non è insomma un verdetto univoco, quello dei 37 milioni circa di spagnoli che ieri – con un’astensione del 30% che la dice lunga sul loro stato d’animo nei confronti del marasma politico in cui è precipitato il Paese – si sono recati ai seggi per scegliere i 350 componenti della Camera e 208 senatori.
E gli elettori hanno sì votato in massa il favorito della vigilia, il Psoe di Pedro Sanchez, ma non in misura sufficiente – i seggi portati a casa dai socialisti sono anzi un pugno di meno di quelli strappati alle elezioni dello scorso 28 aprile – per ottenere il pieno mandato a guidare il paese da solo o in coalizione con quella forza più ideologicamente vicina – Unidos Podemos – che nonostante mesi e mesi di trattative serrate era rifuggita all’abbraccio, costringendo infine il re Felipe a pronunciare il suo “liberi tutti” e riaprire le urne.
Niente maggioranza di sinistra, dunque, anche se il risultato fondamentale di ieri è rappresentato soprattutto dalla spiccata frammentazione di un quadro politico che ha da tempo voltato le spalle alla tradizione bipolare che ha dominato la storia post-franchista. Ben sedici sono infatti le forze politiche che siederanno in Parlamento, in una cacofonia amplificata dalla presenza di numerose formazioni a carattere regionale che hanno negli indipendentisti catalani, usciti dal test di ieri con un successo rotondo, la loro punta di lancia.
In termini percentuali, la situazione è quella illustrata nel tweet di Politico, che ci offre una prima misura dei nuovi equilibri.
https://www.twitter.com/pollofpolls_eu/status/1193741330549133312?s=21
In termini di seggi, invece, i primi arrivati ne incassano 120, tre in meno dunque rispetto a quelli di cui i socialisti potevano contare nel parlamento appena sciolto. Alle loro spalle, nettamente distaccato, troviamo il Partido Popular, i cui 87 deputati portano tuttavia in dote la consolazione di un netto recupero (+22 seggi) rispetto alla deludente performance di aprile.
Ma sono i 52 seggi di Vox, il partito populista di estrema destra guidato da Santiago Abascal, che fanno più rumore di tutti. Il movimento venato di simpatie franchiste riesce infatti nell’impresa di più che raddoppiare i seggi rispetto alla tornata precedente (da 24 a 52), diventando così la terza forza politica di Spagna pronta, come ha dichiarato ieri il suo leader, a mettere in forma una “alternativa patriottica” per il Paese.
Esce invece ammaccato Podemos, che con 35 seggi – sette in meno rispetto ad aprile – rimane comunque il quarto partito di Spagna, mentre dal canto loro i sostenitori di Ciudadanos sono andati a dormire ieri notte con l’incubo di un rovinoso crollo a soli 13 deputati.
Chi canta vittoria è invece il variegato fronte secessionista catalano, che raccoglie nella regione il 42% del consenso popolare – record assoluto per i nemici della Corona – per un totale complessivo di 48 seggi che rappresenteranno il probabile serbatoio cui i socialisti saranno chiamati ad attingere per far decollare il nuovo governo. Va registrato, in questa cornice, il successo personale per gli indipendentisti del CUP, la cui scommessa di partecipare per la prima volta ad un’elezione nazionale viene premiata con i primi due deputati che siederanno tra i banchi del Parlamento.
Saranno insomma assai probabilmente le compagini locali, da quelle Catalane a quelle elette in luoghi come i Paesi Baschi e le Canarie, l’ago della bilancia per la formazione di un governo Sanchez che per raggiungere il numero magico di 176 voti in Parlamento – la maggioranza assoluta – avrà bisogno anche degli uomini di Iglesias e di quelli della sinistra di Más País.
Confortato dai risultati in arrivo, Sanchez nella notte ha fatto attestazione di ottimismo. “In un modo o nell’altro”, ha dichiarato, “formeremo un governo progressista e sbloccheremo lo stallo politico”.
La risposta di Pablo Iglesias non si è fatta attendere. “Siamo pronti”, ha affermato il leader di Podemos, “a negoziare (coi socialisti) a partire da domani”.
L’esperienza di questi mesi insegna tuttavia che la strada per la formazione di una coalizione tra forze così litigiose potrebbe rivelarsi di nuovo impervia e, forse, senza sbocco. Ecco perché Reuters, nel commentare i risultati del voto, non esclude l’alternativa di un governo socialista di minoranza benedetto dall’astensione dei popolari.
E’ una prospettiva di cui è ben conscio lo stesso Pablo Casado, che ieri – mentre uscivano le prime proiezioni di voto – sottolineava come la palla sia ora nel campo di Sanchez. “Vedremo”, ha spiegato il capo del PP, “cosa suggerisce Pedro Sanchez e a quel punto adempieremo alle nostre responsabilità perché la Spagna non può andare avanti con questa paralisi”.
Altro, del resto, Casado non può fare. La suggestione di una coalizione di centrodestra che imbarcasse, insieme ai Popolari, la novità di Vox e Ciudadanos è naufragata davanti ad uno spoglio che ha sancito l’umiliazione del movimento di Albert Rivera, già astro nascente della Spagna che ieri si è ritrovato invece a contemplare pubblicamente un ritiro dalla scena pubblica.
Si annuncia dunque una navigazione perigliosa per la politica spagnola e una niente affatto improbabile prosecuzione dell’instabilità che l’ha piagata in questi lunghi anni. L’unica consolazione per il Paese, ma anche per un leader come Sanchez che potrà comunque giocarsi la sua chance, è l’economia che procede con il pilota automatico.
Mentre in questi anni nei palazzi della politica dominava l’acrimonia, il Pil infatti galoppava, con una crescita che nel 2018 ha toccato il 2,6% e che quest’anno, pur essendo stimata in discesa al 2,2%, continuerà ad essere superiore rispetto alla media Ue (1,5%) e dell’eurozona (1,2%).
Pur restando un mistero offerto alla contemplazione degli analisti, l’economia spagnola che vola in barba alle turbolenze politiche è ormai un punto saldo di un Paese che l’anno scorso ha persino superato l’Italia in termini di Pil pro capite (€40.170 per Madrid contro €39.680 per il Belpaese).
E le buone notizie hanno riguardato anche il debito pubblico, che pur rimanendo relativamente alto (96,4% del PIL) da quattro anni a questa parte sta conoscendo una lenta discesa.
E’ questo il capitale che Sanchez, o chi per lui, dovrà raccogliere e preservare, cercando in particolare di metterlo al riparo dalle conseguenze del rallentamento dell’economia globale innescato dalla guerra dei dazi tra Usa e Cina.
Se sarà proprio il leader del Psoe a guidare il Paese dalla Moncloa, è certo che potrà contare sul sostegno dell’Ue, dove la stella di Sanchez brilla di luce propria nel nuovo allineamento politico creatosi dopo il voto di maggio per l’Europarlamento.
Nella partita apertasi a Bruxelles per il dopo Juncker, Sanchez ha infatti giocato le carte giuste, alleandosi con il presidente francese Emmanuel Macron nelle negoziazioni che hanno condotto la tedesca Ursula von der Leyen al vertice della nuova Commissione europea.
Una scelta di campo pienamente europeista che è stata premiata con la casella di Alto Rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza assegnata al fedele ministro degli Esteri di Sanchez, Josep Borrell.
Ma se, come ben sappiamo noi in Italia, un occhio di riguardo a Bruxelles è un buon viatico per la nascita di un governo nazionale, la vera sfida di Sanchez delle prossime ore non si giocherà nella capitale belga, ma a Madrid, dove è chiamato alla difficile impresa di mettere ordine nel guazzabuglio che è diventata ormai la politica spagnola.
TWEET DELLA SETTIMANA
https://twitter.com/eu_commission/status/1192388750761963520?s=11
La Commissione Europea ha diffuso la settimana scorsa le nuove proiezioni di crescita per i Paesi dell’Unione nel 2019 e nel 2020, e non è un bel vedere per il nostro tricolore.
NOTIZIE DAL MONDO
Il conflitto in Libia e l’embargo alle armi più violato al mondo: rapporto ONU
Un rapporto confidenziale redatto da esperti Onu che sarà oggetto di discussione durante una seduta del Consiglio di Sicurezza alla fine del mese ma che l’AFP ha potuto visionare in anteprima documenterebbe le reiterate violazioni commesse da Giordania, Turchia, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita dell’embargo sulle armi alla Libia imposto dalle Nazioni Unite.
In 85 pagine, più altre trecento di allegati tra foto, mappe e altri documenti raccolti in oltre un anno di lavoro, gli esperti del Palazzo di Vetro evidenziano come i paesi in questione abbiano “messo a disposizione armi” ai combattenti di ambedue i campi “talvolta in modo sfacciato e senza nemmeno sforzarsi di occultarne l’origine”.
“Entrambe le parti in conflitto” – si legge nel testo che è stato consegnato ai membri del Consiglio di Sicurezza lo scorso 29 ottobre – “hanno ricevuto armi, equipaggiamento militare, supporto tecnico e combattenti non libici, in aperta violazione delle sanzioni” in vigore dal lontano 2011,
La Giordania è accusata in particolare di aver addestrato i soldati dell’Esercito Nazionale Libico guidato dal generale Khalifa Haftar, mentre alla Turchia si imputa di aver messo a disposizione del governo di Accordo Nazionale presieduto da Fayez al-Sarraj ampi quantitativi di materiale militare assortito tra cui parecchi mezzi corazzati e droni.
“Il panel ha inoltre individuato la presenza di gruppi armati del Ciad e del Sudan in appoggio alle forze affiliate” tanto ad Haftar quanto a Sarraj, sebbene “l’impatto dei gruppi armati stranieri” sui combattimenti, pur a fronte di un “evidente miglioramento delle capacità militari di entrambe le parti”, venga giudicato “limitato”.
Il rapporto si sofferma lungamente sull’offensiva di Haftar contro Tripoli lanciata dal generale all’inizio di aprile, sottolineando come le operazioni militari “siano state dominate dall’uso di munizioni guidate di precisione lanciate da droni”, il cui uso viene definito da un diplomatico al corrente dei contenuti del rapporto “massiccio da entrambe le parti”.
Viene sottolineato infine il ruolo dell’aviazione degli Emirati Arabi Uniti a sostegno delle forze di Haftar, ricordando in particolare il bombardamento dello scorso due luglio ad un campo di detenzione per migranti nei pressi di Tripoli che ha causato una cinquantina di morti. Se in merito alle responsabilità non si sono pronunciati in modo univoco, gli esperti Onu non hanno potuto fare a meno di notare che gli Emirati hanno in dotazione velivoli come gli F-16 e i Mirage.
In arrivo in Serbia un sistema anti-aereo russo (e le sanzioni Usa?)
L’agenzia di stampa russa TASS ha reso noto mercoledì che “nei prossimi mesi, in base agli accordi e al contratto siglato”, Mosca metterà a disposizione della Serbia il sistema anti-aereo Pantir-S.
Si tratta di un sistema montato su un camion che lancia missili a corto e medio raggio in grado di colpire, oltre che gli aerei nemici, anche droni e missili cruise. Un esemplare di Pantir-S è stato schierato da Mosca in Siria.
La fornitura conferma i solidi rapporti tra la Russia e la Serbia, che conta sul suo alleato per consolidare il proprio esercito con l’apporto di cacciabombardieri, elicotteri e tank. Un sostegno ripagato da Belgrado con la promessa di non aderire mai alla Nato e con il rifìuto di implementare le sanzioni varate dall’Occidente contro Mosca a causa delle sue ingerenze nel conflitto in Ucraina.
Gli Usa, tuttavia, non intendono assistere inerti all’ultima provocazione russa, e tramite l’Inviato speciale per i Balcani Occidentali, Matthew Palmer, hanno ammonito la Serbia che l’acquisizione del Pantir-S “pone il rischio” di finire sotto sanzioni.
“Speriamo”, ha dichiarato Palmer alla tv macedone Alsat M., “che i nostri partner serbi stiano attenti con transazioni di questo tipo”.
La risposta del presidente serbo Aleksandar Vucic è arrivata attraverso un’intervista alla tv di Stato nella quale, oltre ad ammettere che il suo governo sta procedendo ad acquistare armi dalla Russia, si è detto speranzoso di evitare le sanzioni USA e “qualsiasi scontro con l’America”.
“La Serbia”, ha dichiarato Vucic, “si sta armando perché è un paese libero circondato da (nazioni) con le quali vogliamo essere amici”. Ciononostante, il presidente si è impegnato ad impedire che il suo paese sia “debole come lo è stato negli anni ‘90”.
Nuovo accordo di libero scambio tra Cina e Nuova Zelanda
Il ministero del Commercio della Nuova Zelanda ha annunciato lunedì di aver messo finalmente a punto un aggiornamento dell’accordo di libero commercio con la Cina che, oltre ad incrementare l’export di Wellington nel Dragone, abbatterà di milioni di dollari i costi per gli esportatori neozelandesi.
Giunto al termine di un lungo negoziato, il nuovo accordo – che passa ora al vaglio legale in vista della firma che è attesa per l’inizio del 2020 – prevede l’eliminazione nei prossimi due anni di tutti i dazi che gravano sul commercio di prodotti caseari e, di qui a quattro anni, di quelli che colpiscono il latte in polvere.
L’intesa garantisce inoltre un accesso preferenziale in Cina per i prossimi dieci anni al legno e alla carta prodotti in Nuova Zelanda. Sono previste anche disposizioni in materia di tutela dell’ambiente, nonché la rassicurazione che gli standard ambientali non saranno utilizzati a fini protezionistici.
“Questo”, ha dichiarato la premier Jacinda Arden durante il bilaterale tenuto con il collega cinese Li Keqiang all’East Asia Summit di Bangkok, “assicura che il nostro accordo di libero commercio così migliorato sia e resti il migliore che la Cina ha (siglato) con qualsiasi altro paese”.
La Nuova Zelanda è stato il primo Paese sviluppato a firmare nel 2008 un accordo di libero scambio con la Cina, che è adesso il principale partner commerciale di Wellington con un interscambio annuo che ha superato i 32 miliardi di dollari.
Non è comunque tutto rose e fiori tra Nuova Zelanda e Cina. Dal governo di coalizione presieduto da Arden sono partite svariate critiche alla politica dei generosi prestiti concessi da Pechino alle nazioni del Pacifico. L’esecutivo, inoltre, ha escluso seccamente accordi con Huawei per la realizzazione della rete 5G.
Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.
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