Le mosse Usa di questi giorni, a partire dal trasferimento in direzione delle coste coreane del gruppo navale d’assalto guidato dalla portaerei nucleare Carl Vinson, sono piuttosto un messaggio diretto alla Cina, l’unico Paese che potrebbe convincere il regno eremita al tavolo dei negoziati. Pechino ha assunto una posizione di ambiguità nei confronti dell’irrequieto vicino: se ufficialmente sostiene la causa della denuclearizzazione, di fatto tiene in vita il regime, la cui caduta teme più di ogni altra cosa. Per questo, Donald Trump ha ripetutamente esortato la Cina ad assumersi le sue responsabilità e cooperare con gli Stati Uniti per una risoluzione pacifica della crisi.
Questo è quanto il presidente USA sta cercando di comunicare al collega cinese Xi Jinping, cui ha telefonato ieri e che ha incontrato la settimana scorsa nella “Casa Bianca invernale” di Mar-a-Lago in Florida. Trump ha fatto capire al collega di essere disposto persino a concessioni sul piano commerciale – partita esistenziale per il presidente del motto “America first” – in cambio della sua cooperazione sul fronte della minaccia nucleare e missilistica nordcoreana. Un messaggio ribadito anche ieri via Twitter: “Ho spiegato al presidente della Cina”, ha cinguettato il tycoon, “che un accordo commerciale con gli USA sarebbe assai migliore per loro se risolvessero il problema della Corea del Nord!”. 140 caratteri tutt’altro che sibillini, cui sono seguiti a ruota altri 140: “La Corea del Nord sta cercando guai. Se la Cina si decide ad aiutare, sarebbe grande. Altrimenti, risolveremo il problema da soli!”.
Minacciando di agire unilateralmente, Trump fa ricorso ad una diplomazia coercitiva che si prefigge due obiettivi: deterrenza contro eventuali azioni spericolate da parte di Kim Jong Un, persuasione nei confronti della Cina, esortata a farsi carico del “problema” che promana dai suoi confini. La portaerei Carl Vinson arriverà a destinazione nei prossimi giorni, quando è prevista l’ennesima provocazione da parte nordcoreana, che potrebbe celebrare il genetliaco del padre della patria e nonno del dittatore Kim, Kim il Sung, con un nuovo test nucleare o con l’ennesimo lancio di missili balistici. Ma il traguardo che la Corea del Nord intende conseguire con il suo programma illegale è il test di un missile intercontinentale con testata nucleare in grado di raggiungere le coste americane: uno sviluppo che, secondo gli analisti, potrebbe materializzarsi entro il primo mandato di Trump alla Casa Bianca. A quel punto, l’equazione strategica sarebbe irreparabilmente alterata, e gli Stati Uniti si troverebbero di fatto sotto scacco. E poiché non vuole passare alla storia come il presidente che si è lasciato piegare da un megalomane come Kim Jong Un, Trump si ritrova di fatto a corto di opzioni. È costretto ad alzare la voce e a mostrare i muscoli, nella speranza che la Cina gli tolga le castagne dal fuoco.
Nel suo viaggio in Asia del mese scorso, il segretario di Stato americano Rex Tillerson aveva dato un assaggio del nuovo clima dichiarando che la “pazienza strategica” degli Stati Uniti verso la Corea del Nord “è finita”, e che “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Compreso, dunque, un attacco preventivo. Anche quello rappresentava un messaggio diretto a Pechino, dove Tillerson si è recato in quella circostanza. Ora, con le sue nuove mosse, l’amministrazione Trump aumenta il pressing sulla Cina, con l’auspicio che si faccia carico di un problema che fino a questo momento ha scaricato sulle spalle degli Stati Uniti generando un’instabilità che dovrebbe in primo luogo preoccupare l’impero di mezzo.