Commento, analisi e tesi di Minxin Pei, docente universitario del Claremont McKenna College e uno dei massimi esperti della Cina, sul Coronavirus
Mentre gli ultimi aggiornamenti sull’emergenza Coronavirus confermano la gravità di quanto sta accadendo ormai non più solo in Cina, ma in buona parte del mondo – con Reuters che all’alba di oggi informava che il numero complessivo di persone contagiate, 9.800, ha ormai superato quelli della SARS – procede senza sosta, parallelamente, anche la caccia all’untore.
Factbox: Latest on the coronavirus spreading in China and beyond https://t.co/Eu2tcJA3X3 pic.twitter.com/zVkjRnRP2k
— Reuters (@Reuters) January 31, 2020
Se dovremo aspettare ancora del tempo per sapere se il nuovo virus detto Coronavirus sia effettivamente stato trasmesso in una catena che partendo dai pipistrelli è passata ai serpenti e di qui all’uomo, c’è già chi punta il dito su quello che viene considerato non solo e non tanto un corresponsabile, quanto il principale artefice di questo disastro in fieri.
Sollevato dalle colonne del Japan Times, il dito è in questione è di Minxin Pei, famoso docente universitario del Claremont McKenna College che è anche nonresident senior fellow del German Marshall Fund. E punta dritto sul regime di Pechino.
È infatti agli imperativi del Partito Comunista cinese e della sua nomenclatura che, a detta di Pei, bisogna guardare per ricostruire quel che è successo dal dicembre scorso ad oggi.
Al docente, anzitutto, quel che si è verificato in Cina in questo periodo ricorda tanto, ma proprio tanto da vicino, quanto accadde diciassette anni fa nelle medesime province dell’ex impero di mezzo alle prese con l’epidemia della SARS. Un’emergenza che vide sul banco degli imputati Pechino e le sue reticenze, proprio come – dice senza peli sulla lingua Pei – andrebbe fatto oggi per il Coronavirus.
Per quanto grave, l’accusa del docente non stupirà i conoscitori della macchina del PCC e la forma mentis dei suoi mandarini. I quali, sembra quasi superfluo ricordarlo, sono ossessionati dalla necessità – tipica di ogni dittatura totalitaria – di dimostrare ai sudditi che tutto procede regolarmente e, pertanto, sono sempre lesti a togliere dalla circolazione qualsivoglia notizia che possa macchiare tale reputazione di infallibilità.
È sulla scorta di questa premessa che Pei osserva come in Cina in questo momento “la storia si stia ripetendo”. Esattamente come oggi, infatti, a cavallo del 2002 e del 2003 la “patologica segretezza” che ammanta da sempre l’azione di governo in Cina spinse le autorità a tenere ben nascosto l’insorgere dell’epidemia, al punto che – ricorda l’autore – persino il Ministero della Salute si rifiutò deliberatamente per lungo tempo di rendere pubbliche le informazioni sul nuovo virus e sulle conseguenze che stava producendo.
È questo monito che dobbiamo avere ben presente nel giudicare l’attuale comportamento di Pechino. Un comportamento che presenta sì alcune differenze rispetto al 2003, a partire da un dispiegamento di risorse umane e tecnologiche che si sta dimostrando più efficace rispetto a quanto fu messo in campo allora. Ma che ha esibito anche questa volta quel peccato originale – la segretezza patologica per l’appunto – che nell’Occidente ormai coinvolto fino al collo nell’emergenza Coronavirus non può che apparire mostruoso e imperdonabile.
A titolo di prova, Pei ricorda anzitutto le numerose settimane passate da quando si è registrata a Wuhan la prima infezione a quando la Commissione municipale per la Sanità della stessa metropoli ha ammesso tutto in un comunicato ufficiale.
Anche dopo aver compiuto questo passo, peraltro, le autorità di Wuhan hanno continuato a minimizzare oltre che sforzarsi di occultare o manipolare la verità sull’effettiva gravità della situazione.
Per giorni, pertanto, tutto quel che ai cittadini cinesi è stato consentito sapere è che c’era sì un misterioso virus in circolazione, ma che non vi era alcuna prova della sua trasmissibilità all’uomo e, inoltre, che nessun caso di infezione si era registrato tra gli operatori sanitari di Wuhan.
Una balla colossale che, sottolinea Pei, la Commissione Sanità di Wuhan ha ripetuto instancabilmente fino al 5 gennaio, quando i casi confermati erano già 59. Anche quando, sei giorni dopo, si è verificato il primo decesso, l’organo cittadino non ha saputo far altro che reiterare la fandonia secondo cui non vi era alcuna prova della trasmissibilità all’uomo.
Se, specialmente col senno di poi, il comportamento delle autorità di Wuhan appare a dir poco criminale, quello del governo centrale secondo Pei non è stato da meno.
A Pechino infatti, osserva il noto intellettuale esperto della Cina, è scattato subito il riflesso condizionato della censura, che ha impedito che i fatti di Wuhan finissero sulle pagine dei giornali cinesi e, soprattutto, nella popolatissima arena dei social.
A tal proposito, Pei cita i risultati di uno studio che ha appurato come in WeChat le menzioni dell’emergenza a Wuhan abbiano conosciuto un’impennata tra il 30 dicembre e il 4 gennaio, salvo crollare immediatamente dopo l’intervento della macchina della censura.
Il dispositivo orwelliano di cui dispone il regime per controllare i social è intervenuto una seconda volta esattamente una settimana dopo, stavolta per soffocare le accese discussioni suscitate anche in Cina dalle notizie che nel frattempo avevano preso a circolare in tutto il mondo.
Quando però, intorno al 20 gennaio, anche il Paese dalla più occhiuta sorveglianza elettronica al mondo era ormai al corrente dell’esistenza di ben 136 casi di Coronavirus, i funzionari di Partito non hanno potuto far altro che allentare la morsa della censura. Il risultato è arrivato immediatamente dopo sotto la forma di un numero incalcolabile di riferimenti all’emergenza in corso.
È tutto fuorché sorprendente perciò, sottolinea Pei, che le autorità di Pechino stiano ora promuovendo tutt’altra narrativa, virando sul registro epico che vede il Partito protagonisti di un formidabile intervento sanitario comprensivo di misure draconiane nonché dell’edificazione di nuovi ospedali in tempo record.
Il problema però è presto detto e lasciamo che siano le stesse parole di Pei evidenziarlo: “Non è chiaro a questo punto se e in che misura questi passi si riveleranno efficaci. Ciò che è chiaro che la malagestione iniziale da parte della Cina (di questa emergenza) significa che migliaia di persone saranno contagiate, centinaia potranno morire e l’economia, già indebolita dal debito e dalla guerra commerciale (con gli Usa), subirà un altro duro colpo”.
La conclusione a questo punto è ovvia. Quando i leader cinesi dichiareranno vittoria sulla nuova peste, attribuendone a sé stessi i meriti, chi sa davvero come sono andate le cose non potrà che ricordare la chiusa dell’articolo di Pei, per il quale “la verità dice l’esatto contrario: il Partito è di nuovo responsabile di questa calamità”.