Europa, politiche sull’immigrazione, Cina, F-35. Ecco alcuni dei punti programmatici in comune fra Pd e Movimento 5 Stelle secondo le prime valutazioni di analisti ed editorialisti anche sulla base delle divergenze emerse nel governo tra pentastellati e leghisti. L’approfondimento di Marco Orioles
A consultazioni ancora in corso, sarebbe come minimo imprudente pronunciarsi su un’ipotetica politica estera di un nuovo esecutivo destinato a scaturire, come pare ormai probabile, dalle triangolazioni in corso tra Quirinale, gruppi parlamentari e partiti.
In attesa di capire se dai colloqui germinerà il governo giallorosso le cui quotazioni continuano a salire, le due uniche cose che possiamo fare per capire se, almeno per quanto riguarda la politica estera, il nuovo governo entrerà in carica all’insegna delle continuità o delle discontinuità rispetto all’esperienza gialloverde sono, nell’ordine, leggere tra le righe dell’ordine del giorno della Direzione nazionale PD approvato ieri e riprendere le annotazioni di analisti, saggisti ed editorialisti dedicatisi, in questi giorni convulsi, al tema in questione.
Dal resoconto dei lavori della Direzione del Pd non è naturalmente scaturito altro, in materia di politica estera, che qualche breve e vago auspicio. Che pare studiato ad arte, tuttavia, per segnalare il netto cambio di rotta che è chiamato ad imboccare il nuovo esecutivo.
Il documento, nella fattispecie, “indica al capo dello Stato i presupposti sui quali” la delegazione PD “intende concentrare la propria iniziativa per l’avvio di una fase politica nuova e la verifica di un’altra possibile maggioranza parlamentare in questa legislatura”. Presupposti tra i quali i più salienti, dal nostro punto di vista, sono due:
L’impegno e l’appartenenza leale all’UE per una Europa profondamente rinnovata, un’Europa dei diritti, delle libertà, della solidarietà e sostenibilità ambientale e sociale, del rispetto della dignità umana in ogni sua espressione;
Una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori fondata su principi di solidarietà, legalità sicurezza, nel primato assoluto dei diritti umani, nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali e in una stretta corresponsabilità con le istituzioni e i governi europei.
Immaginiamo già cosa possa pensare, di tutto ciò, Marco Gervasoni, docente universitario ed editorialista del Messaggero. Che in un articolo scritto appena ieri per il Centro Machiavelli, aveva sottolineato come la sfida più importante che il nuovo esecutivo avrebbe dovuto affrontare sarebbe stato rivoltare come un calzino “l’ambito più disastroso del governo” Conte, ossia proprio la politica estera.
Articolo dove Gervasoni non aveva usato mezzi termini per bocciare l’azione esterna del governo guidato fino all’altro ieri dall’avvocato del popolo. Un giudizio negativo che Gervasoni, assolvendo completamente la Lega e i suoi uomini con responsabilità esecutive (dallo stesso Salvini, al sottosegretario Giorgetti, al sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi), estendeva a due soggetti in particolare.
Il primo è rappresentato dalla “componente pentastellata” del governo (e qui l’assenza di nomi fa pensare che il giudizio vada esteso a tutta la squadra grillina, incluso ovviamente l’uomo più in vista, il sottosegretario Manlio Di Stefano). Il secondo è invece quello che Gervasoni definisce il “terzo partito” formato dallo stesso Conte e dai suoi “tecnici”, espressione dietro cui individuiamo il profilo del titolare della Farnesina, Enzo Moavero Milanesi.
Dal connubio tra queste due forze è scaturita, se stiamo a Gervasoni, “una politica estera che avrebbero potuto intestarsi anche Gentiloni o Alfano, anzi persino peggiorata dall’influenza pentastellata, terzomondista, pacifista, e affascinata dalle dittature rosse e da quelle teocratiche”. Un disastro, insomma, secondo il docente alla Luiss di Storia comparata dei sistemi politici.
Delle tante colpe di cui si è macchiato il governo gialloverde, la più clamorosa per Gervasoni è l’aver dato al proprio operato l’impronta di un “anti-trumpismo raro persino tra gli altri partner europei”. Un atteggiamento che il professore ritiene imperdonabile, considerato “lo sforzo dell’amministrazione americana di Trump per favorire la nascita del governo e il forte e plateale iniziale appoggio del presidente americano a Conte”. In cambio di tanta generosità, osserva caustico Gervasoni, “solo schiaffi”.
E lo schiaffo più sonoro rifilato da Conte e sodali a The Donald è rappresentato, naturalmente, dalla “incredibile firma del memorandum sulla cosiddetta via della Seta”. Il fatto che il presidente del consiglio e la sua maggioranza pentastellata abbiano deciso di tirare diritto sull’adesione alle nuove vie della Seta cinesi nonostante l’evidente e rumorosa contrarietà della componente leghista (e i moniti niente affatto sibillini pervenuti da Washington) non fa che aggravare, agli occhi di Gervasoni, una decisione le cui implicazioni sono così numerose e profonde da far pensare che sia mancata del tutto una riflessione.
Se ci fosse stata, infatti, il governo Conte avrebbe capito che quella mossa è stata consumata quanto meno nel momento sbagliato, ossia proprio quando “il conflitto mondiale è polarizzato dalla divisione tra Usa e Cina”. Che in simili circostanze “l’Italia (abbia) deciso di schierarsi con” Pechino è una macchia che il nuovo governo, se ne deduce, avrà il dovere di cancellare.
La cosa di cui Gervasoni fatica a capacitarsi è insomma di come “un governo costituito da due forze sovraniste (così si definivano fino a poco tempo fa anche i 5 stelle)” abbia deviato dal suo corso naturale, che “sarebbe stato quello di schierarsi con le potenze revisioniste: non solo gli Usa di Trump ma anche il Regno unito” di Boris Johnson, cui – osserva rammaricato Gervasoni – questo esecutivo non si è neanche degnato di trasmettere un “caloroso” augurio di buon lavoro.
Quella di Gervasoni non è però perplessità, ma rabbia. Rabbia per come il governo gialloverde abbia abiurato alla propria vocazione per riscoprirsi in tutto e per tutto simile ai suoi predecessori, vale a dire in condizione di “totale subalternità a Parigi e a Berlino”. Subalternità che ora, a giudicare dal preambolo del documento uscito dalla Direzione Nazionale del Pd, tutto costituirà fuorché un problema da risolvere.
Sulla questione dei nostri rapporti con i cugini europei, anche l’analista ed editorialista Guido Salerno Aletta ha espresso recentemente alcune considerazioni. Ricordando, anzitutto, che “c’è tutto un contesto di posizionamento internazionale dell’Italia che va messo in chiaro, dal 5G alle alleanze strategiche nel campo della industria militare:”.
In questo quadro, ha aggiunto Salerno Aletta, è impossibile non vedere come gli interessi dell’Italia da un lato, e di Francia e Germania dall’altro, siano non solo diversi, ma addirittura incompatibili. “L’asse franco-tedesco – scrive infatti Salerno Aletta – punta ad un esercito europeo e alla realizzazione congiunta di sistemi d’arma, in modo autonomo rispetto agli Usa ed alla GB. L’Italia ha invece intese su quest’ultimo fronte”.
Se questi nodi dovranno essere sciolti nell’imminente futuro, su quelli che hanno strangolato l’esperienza gialloverde Salerno Aletta ha la sua personalissima idea. Nella sua ricostruzione, Salvini e la Lega – con il loro proditorio assalto ai tabù dell’ortodossia finanziaria Ue – rappresentano le ultime vittime nell’ordine di “un asse, che lega Palazzo Chigi al Quirinale, passando per via XX Settembre e via Nazionale (e) che finora ha sempre gestito tutti i dossier economici più delicati”.
Questo “fronte della conservazione” aveva già pronta la mossa con cui disinnescare i disegni sovranisti del Carroccio: “usare la legge di bilancio”, scrive ancora Salerno Aletta, “per mettere in riga la Lega (usando) mediaticamente la clava dello spread per rintuzzare qualsiasi velleità di emanciparsi dalle regole europee”.
È, più o meno, quello che il senatore leghista Alberto Bagnai ha detto in Senato, durante il dibattito seguito alle dimissioni di Conte, quando ha citato l’articolo del Financial Times con cui Martin Sandbu ha esortato l’Ue a sbloccare le politiche fiscali. “Noi non possiamo sostenere – ha affermato in aula Bagnai – un governo più conservatore del Financial Times. Francia e Germania si apprestano a violare delle regole irrazionali. E noi siamo vittime di un approccio che ci vuole sempre, per un malinteso complesso di inferiorità, essere più realisti del re”.
Queste brevi osservazioni bastano per capire che, tra i motivi per cui l’esperienza gialloverde è arrivata al capolinea, bisogna annoverare anche il fallimento del tentativo leghista di cancellare la sudditanza nei confronti di un’Unione Europea che – come il Capitano leghista amava dire – pretende di governare con “le letterine” la seconda manifattura del Vecchio Continente.
Un flop che, aggiunto a decisioni surreali come la firma del MoU con la Cina e incomprensibili come le spalle voltate all’alleato sovranista d’oltreoceano, lascia ben intuire l’amarezza di osservatori come Gervasoni che, nei confronti di questo governo, avevano aspettative palingenetiche.
Anche se non sappiamo cosa in queste ore, nelle stanze ovattate del più alto colle romano, il Presidente della Repubblica stia sussurrando ai rappresentanti delle forze politiche, possiamo essere certi che molte delle cose che abbiamo accennato qui vi avranno trovato spazio.