Portata e risultati del vertice Italia-Francia commentati dall’analista Francesco Galietti
“Mattarella non può permettersi di rimanere senza sponde istituzionali esterne. È per questo motivo che ha puntellato l’asse con la Francia nei momenti bui del governo gialloverde e anche dopo. Ed è lo stesso motivo per cui il nostro attuale governo, da figlio di uno schema eurovaticano, è diventato espressione di uno schema franco-vaticano. Questo è un governo aggrappato alla sottana del cardinal Bassetti”.
Parola di Francesco Galietti, analista, fondatore della società Policy Sonar ed editorialista del quotidiano Italia Oggi, che in questa conversazione con Start Magazine analizza il recente vertice Italia-Francia e commenta la politica estera del governo Conte 2: ” Non si capisce bene se stiamo con l’emiro del Qatar e il suo alleato Erdogan, o con l’asse saudita-emiratino-egiziano-israeliano. Se stiamo con l’Iran contro Trump o viceversa. O se stiamo addirittura a turno un po’ con l’uno e un po’ con l’altro”.
Comunque la pace scoppiata tra Francia e Italia al vertice di Napoli è una notizia che non può che rincuorare. Ancora vivo, del resto, è il ricordo del clamoroso strappo di un anno fa, del repentino ritorno in patria per urgenti consultazioni dell’ambasciatore francese, sdegnato come l’inquilino dell’Eliseo per le bravate del cosiddetto Salvimaio, e del suo rientro successivo alla ricucitura operata dall’infermiere che vive su un colle chiamato Quirinale.
Se quello fu, per dirla con l’analista Francesco Galietti, il “nadir” del nostro rapporto con Parigi, l’incontro avvenuto nella città di Totò e Peppino lo riporta nello zenith e, pertanto, sui binari della normale routine di due buoni vicini di casa.
Peccato che di normalità, in tutto ciò che sta succedendo a cavallo non solo delle Alpi, il fondatore di Policy Sonar ne intraveda davvero poca.
In questa conversazione con Start Magazine, Galietti si cala nei panni dello psichiatra di pazienti illustri come Giuseppe Conte. Del capo cioè non di uno ma di due governi la cui parabola comincia con un grande scazzo con il leader dei progressisti europei e finisce con l’idillio di Napoli.
Contorsioni che Galietti attribuisce, oltre che ai “basculamenti” di un movimento politico apolide come quello grillino, all’identità fantasmatica di un uomo come Conte che, oltre a non avere un partito, non è stato eletto da nessuno se non da quel “placebo” che si chiama Rousseau.
Ma i problemi dell’Italia non iniziano e finiscono a casa di “my friend Giuseppi”. Decisamente più spinosi sono i paradossi di un Paese che, per dirla con il fondatore di Policy Sonar, può permettersi il lusso di stare un giorno con Trump e l’altro contro il suo nemico iraniano; o di ballare un giorno il valzer con Erdogan salvo invitare a ballare la sera successiva il suo nemico giurato saudita.
Un paese, insomma, che solo personalità sui generis come il napoletanissimo Eduardo hanno saputo comprendere nel profondo. O meglio, per ricorrere alla battuta neanche troppo tale di Galietti, un Paese che non va alla deriva solo grazie alla presenza della Sesta Flotta Usa, unica ancora di cui disponiamo nella nostra dadaistica navigazione dei flutti internazionali.
Galietti, è scoppiata davvero – per citare alcuni lanci d’agenzia battuti dopo il vertice di Napoli – la pace tra Italia e Francia?
Il vertice è stato l’episodio culminante di una lunga rincorsa. Una rincorsa finalizzata a ripristinare uno stato di armonia, se non di idillio, tra Francia e Italia a livello sia istituzionale che di élite. Un idillio che, come ricordiamo tutti molto bene, si era spezzato l’anno scorso durante l’era gialloverde di questa legislatura, ossia una fase in cui le relazioni italo-francesi ebbero il loro picco negativo.
L’era – copyright de “La Repubblica” – del Salvimaio.
Già. Se il cosiddetto Salvimaio fu il nadir delle relazioni italo-francesi, il vertice di Napoli rappresenta lo zenith. È d’altronde indubbio che la Francia tenga molto al rapporto con un Paese come il nostro dove ha molti e cospicui interessi. Un rapporto che peraltro non è solo economico o culturale, ma si vede soprattutto a livello di élite. E fu proprio al livello delle éelite che nella fase del Salvimaio si ebbero veri e propri scossoni. Basti pensare ai gilet gialli che godevano del tifo aperto da parte di ministri della nostra Repubblica.
Se le scelte grilline di allora contribuirono non poco alla rottura, anche quelle della Lega e di Salvini non sono state da meno, non trova?
Se devo dire la verità, penso che la questione sia tutta interna al mondo grillino. E ha molto a che fare con la collocazione in Europa del M5S che – a differenza di quella della Lega, stabilmente ancorata nel raggruppamento di Marine Le Pen – è sempre stata incerta. Basta prendere il calendario dell’anno scorso per accorgersi che le scintille tra Italia e Francia coincidono con la fase in cui i grillini apolidi cercavano di collocarsi da qualche parte nell’Europarlamento. E giacché non volevano essere organici a formazioni politiche, schemi e simboli esistenti, cercarono di crearne dei nuovi a loro stessa immagine e somiglianza. Per questo motivo, il M5S puntò tutto sulla creazione di un raggruppamento politico a sé stante.
Per diventare, come dicevano all’epoca, l’ago della bilancia della politica europea.
Esattamente. I grillini, di fatto, stavano cercando di fondare una start-up a livello europeo. E fu tutta una grande emulsione di movimenti simil-populisti uno più improbabile dell’altro che non a caso furono premiati alle urne con percentuali a una cifra, se non meno. Fu davvero un’esperienza surreale, che dimostrò se non altro come la collocazione europea di un partito sia sempre un dato da tenere in debito conto se si vogliono comprendere natura e obiettivi di quello stesso partito.
Però i grillini furono anche oggetto di corteggiamento da parte di alcune famiglie tradizionali europee, tra cui il raggruppamento di cui fa parte lo stesso movimento di Macron.
Come no. Furono corteggiati, oltre che da Macron, anche dai verdi. Sono proprio questi basculamenti europei del M5S ad aver determinato gli scossoni nel rapporto Italia-Francia. Il che dimostra quanto torto hanno tutti coloro che non seguono con sufficiente attenzione – per non dire che se ne fregano completamente – le vicende di Strasburgo e Bruxelles che poi si riverberano inesorabilmente sui panorami nazionali. La verità è ancora contenuta in quella famosa massima: Dimmi con chi vai e chi dirò chi sei.
Visto sotto la luce di questa massima, chi è l’uomo – Giuseppe Conte – che l’altro giorno a Napoli era a braccetto con Macron ma qualche mese prima presiedeva un governo che un giorno sì e l’altro pure scagliava bordate contro il capo dell’Eliseo? L’uomo cioè che un anno or sono ebbe il suo “momento Schultz” all’Europarlamento dove fu autorevolmente etichettato come un “burattino”?
Quello che lei dice evidenzia il vero problema del nostro primo ministro, che è il non avere fondamenta politiche solide, o anzi non averne affatto. Conte è l’erratico per definizione. È uno che non ha nulla, e proprio per questo è pronto a tutto. Basta vedere cosa è successo negli ultimi mesi, durante i quali Conte si è prima proposto come traghettatore dei grillini verso il Pd, per poi aggrapparsi al Pd, e ora che il Pd si è stufato di lui, annaspa. Si sente chiaramente il suono delle unghie di Conte aggrappate sul vetro. Diciamo che Conte sta scontrando ora come non mai il proprio deficit di legittimazione politica. Ce lo dimentichiamo spesso, ma Conte non è stato eletto da nessuno.
Conte è stato votato dai militanti grillini sulla piattaforma Rousseau insieme alla squadra di governo candidata dal M5S a guidare il Paese dopo le elezioni politiche del 2018. E che ha ricevuto sulla stessa piattaforma un plebiscito quando si è trattato di tenere a battesimo il suo secondo governo.
Ma quello è un surrogato di legittimazione. Per Conte, il voto su Rousseau è stato l’equivalente di un placebo. La vera legittimazione è tutta un’altra cosa. E ora questo nodo viene al pettine. Ricordo che il manuale dell’emergenza prevede adesso la superfetazione del leader.
Torniamo alle relazioni Italia-Francia, a giudicare dalle cronache del vertice di Napoli fatte dalla stampa italiana – tra pace fatta e gran rispolvero del Trattato del Quirinale – sembra proprio che si possa parlare di superfetazione, non trova?
La verità, purtroppo, è che al Trattato del Quirinale ci tiene più Mattarella che Conte. Anche perché il nostro premier vive al momento un mood della serie, “ditemi quello che devo firmare, e lo faccio”. Non è un caso, per quanto sia del tutto insolito, che a presiedere il vertice sia stato proprio il Presidente della Repubblica. Che poi è lo stesso che ha tenuto a battesimo il governo giallorosso appoggiandosi al mondo cattolico, dunque alle gerarchie vaticane, e alla Germania, che peraltro è scomparsa negli ultimi tempi dall’equazione essendo ormai completamente assorbita dalle proprie beghe. Mattarella non può permettersi di rimanere senza sponde istituzionali esterne. È per questo motivo che ha puntellato l’asse con la Francia nei momenti bui del governo gialloverde e anche dopo. Ed è lo stesso motivo per cui il nostro attuale governo, da figlio di uno schema eurovaticano, è diventato espressione di uno schema franco-vaticano. Questo è un governo aggrappato alla sottana del cardinal Bassetti.
A proposito di allineamenti internazionali, cosa pensa delle contorsioni che Paesi come il nostro, ma anche la stessa Francia, stanno manifestando a proposito di dossier chiave come Huawei. Giacché sia a Roma che a Parigi convivono posizioni diametralmente opposte sui moniti americani circa la minaccia posta dal colosso di Shenzhen alla sicurezza delle nostre comunicazioni – con mezzo governo che dice una cosa e l’altra metà l’esatto contrario – non pensa che l’espressione dadaismo sia l’unica appropriata per definire l’attuale ciclo politico?
Purtroppo è così. Non sembra esserci alcuna linea di fondo, e come sempre cerchiamo di tenere i piedi in due o più staffe. Se stiamo parlando di allineamenti internazionali, la linea del nostro Paese nei riguardi delle maggiori famiglie politiche dell’Islam ci vede in una posizione a dir poco surreale. Non si capisce bene se stiamo con l’emiro del Qatar e il suo alleato Erdogan, o con l’asse saudita-emiratino-egiziano-israeliano. Se stiamo con l’Iran contro Trump o viceversa. O se stiamo addirittura a turno un po’ con l’uno e un po’ con l’altro.
La conclusione è che quello statista europeo che un secolo e mezzo fa accusò l’Italia di essere appassionata di valzer aveva già capito tutto, e che forse stava minimizzando perché in realtà non è un valzer ma una polka o una mazurka?
Certamente. Non è un caso, se mi si consente una battuta, che il vertice Italia-Francia si sia tenuto nella città europea più fuori dagli schemi di tutto il continente come Napoli. Se devo dire francamente quello che penso, credo che il vero motivo per cui il nostro Paese non sia spaccato in tre o quattro entità – per capirsi, in uno Stato neo-gallico a Nordovest, uno neo-bavarese o neo-asburgico a Nordest e uno neo-borbonico a Sud – sia la presenza della Sesta Flotta Usa. È la sola nostra garanzia, punto e basta.