La nostra gioventù è stata forse l’infanzia del mondo complesso. Ed è stata un’infanzia felice. No, non ho tentazioni luddistiche. Ma sto facendo un pensierino su quella maglietta in vendita su Amazon con la scritta “Mi manca il mio cervello pre-internet”… La lettera del sociologo e giornalista Marco Orioles.
Caro direttore,
ho appena letto un gustoso articolo di Axios che parla dei molti giovani della generazione Z che in America e non solo esprimono curiosità verso il tempo in cui non c’erano né internet né gli smartphone. “C’è una crescente fascinazione tra i ragazzi – scrive la testata Usa – su come la gente socializzava, si raggiungeva e faceva le cose prima della metà degli anni Novanta, quando internet, le email e i telefoni cellulari hanno cominciato a diffondersi”.
Quasi non riescono a capacitarsi, gli adolescenti e i ventenni di oggi, che i loro genitori o amici più anziani abbiano abitato un pianeta senza reti fisiche o virtuali. Effettivamente, a posteriori appare quasi incredibile che si sia stato possibile sopravvivere in un mondo senza accesso universale alla conoscenza e senza la reperibilità ubiquitaria.
Stando a quanto scrive Axios, i giovani d’oltre Atlantico hanno preso addirittura a guardare vecchie serie televisive come “Friends” per rendersi conto di come fosse la vita allora, oppure rivolgono puntuti quesiti a piattaforme come Reddit incaricate di soddisfare la loro curiosità su come noi “immigrati digitali” e anche un po’ “gli ultimi innocenti” siamo diventati adulti.
Noi cresciuti srotolando cartine geografiche per orientarci o dandoci in anticipo appuntamenti irrevocabili abbiamo il compito di spiegare ai privilegiati di oggi che era possibile essere felici, produttivi e creativi anche a prescindere dalle connessioni e dalla sovrabbondanza multimediale. Prima dell’avvento del digitale, infatti, non ci siamo ugualmente incontrati, frequentati, relazionati, edotti, elevati, innamorati?
Quel che oggi è facile e addirittura scontato succedeva lo stesso, ma con la magia di tanti piccoli miracoli umani così tipici della nostra specie. Non so dire francamente se quello a bassa tecnologia fosse un mondo migliore. Ma era il nostro mondo, quello in cui siamo diventati uomini e di cui resta traccia nella nostra memoria ormai sfocata.
La memoria, ad esempio, del suono dei gettoni infilati in una cabina telefonica per chiamare la fidanzata, del ticchettio dei tasti della macchina da scrivere, o del soffio di una lettera imbucata nella cassetta postale per un destinatario che l’avrebbe ricevuta giorni dopo. La nostra gioventù è stata forse l’infanzia del mondo complesso. Ed è stata un’infanzia felice.
Come spiega Christopher McFadden citato da Axios, “le persone che hanno vissuto in quell’epoca oscura raccontano come la vita sembrasse meno impegnata, meno stressante e più godibile”. La gente, aggiunge, si vedeva di persona molto più spesso dato che non poteva comunicare via Whatsapp o Zoom, e quando due individui si incontravano faccia a faccia prestavano più attenzione alle parole dell’altro.
E anche se un mondo dove le attese non possono essere ingannate giocando su Facebook a Candy Crush può forse apparire noioso, quei tempi morti una volta venivano impiegati esercitando la nobile attività del pensiero.
Ci sarebbe addirittura un sondaggio condotto da Harris Poll secondo cui “molti americani preferirebbero vivere in un’era più semplice prima che tutti divenissero ossessionati dagli schermi e dai social media”, e questo sentimento lo si riscontra non solo tra i nostalgici boomer ma addirittura tra gli iperattivi esponenti della generazione Z.
Per quanto mi riguarda, sarò l’ultimo a rifuggire nella tentazione luddista e non solo perché il mio mestiere di giornalista degli Esteri è oggi molto agevolato dalle nuove tecnologie che mi consentono ad esempio di seguire in tempo reale eventi e personaggi lontani.
Farò tuttavia un pensierino su quella maglietta in vendita su Amazon con la scritta “Mi manca il mio cervello pre-internet”.
Grazie dell’attenzione e buon lavoro (virtuale o reale),
Marco Orioles