Reazioni e commenti di capi di Stato e di governo alla mossa di Trump contro l’Iran, mentre Pompeo critica gli europei. L’articolo di Marco Orioles
Chi pochi mesi fa pensò, giubilando, che la cacciata dalla Casa Bianca del falco John Bolton avrebbe condotto ad un abbassamento della tensione tra Stati Uniti e Iran si è dovuto ricredere all’alba di ieri.
Il drone Usa entrato in azione poco dopo la mezzanotte nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, incenerendo le auto che trasportavano il generale Qasem Soleimani e i suoi accompagnatori, avrà anzi capito – con la stessa chiarezza del bagliore dei missili scagliati da quell’UAV – che la sfida tra la superpotenza a stelle e strisce e la Repubblica Islamica non solo è destinata a proseguire, ma è entrata adesso bruscamente in una nuova fase: quella dei rischi fatali.
Non che i mesi precedenti siano stati, come sappiamo, esenti da pericoli. Nell’anno che si è appena chiuso, al contrario, i due Paesi si sono trovati ripetutamente sull’orlo della guerra.
Fresca è ancora la memoria del giorno di quest’estate in cui Donald Trump ha ritirato all’ultimo minuto l’ordine di bombardare obiettivi iraniani come rappresaglia per l’abbattimento, da parte dei Guardiani della Rivoluzione, di un costosissimo drone Usa.
Parimenti recente, e altrettanto grave, è stato l’attacco dello scorso settembre – attribuito, pur in assenza di rivendicazioni, alla Repubblica Islamica o, in subordine, ai suoi alleati yemeniti Houthi – agli impianti petroliferi sauditi, che hanno dimezzato per settimane l’attività estrattiva di Saudi Aramco, la compagnia energetica di Stato.
Questi ed altri incidenti hanno caratterizzato un’annata di scintille tra Usa e Iran, lasciando intravedere all’orizzonte la più che probabile eventualità di un’escalation.
Che si è materializzata alla fine dell’anno sotto la forma di un vero e proprio regolamento di conti tra i due rivali.
La sequenza era cominciata con i missili scagliati una settimana fa dai miliziani iracheni pro-Teheran di Kataib Hezbollah su una base di Kirkuk che hanno causato la morte un contractor americana. È stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza americana, già al lumicino per gli 11 attacchi contro truppe Usa messi a segno in Iraq nei mesi precedenti dai gruppi armati fedeli all’Iran.
La rappresaglia è quindi scattata in poche ore e ha assunto la forma di un bombardamento mirato, da parte dell’aviazione a stelle e strisce, contro sei basi e depositi di Kataib Hezbollah dislocati in Iraq e in Siria. C’è confusione sul bilancio delle vittime, che alcune fonti pongono a 25 elementi della milizia.
Mancavano poche ore ormai alla fine dell’anno e l’Iraq andava in subbuglio per quella che è stato interpretata come una flagrante violazione della sovranità del Paese. Così, mentre dal mondo politico si tornavano a levare alte le richieste di un ritiro immediato dei soldati americani, le milizie passavano all’azione mettendo in scena quella che, negli Usa, deve essere parsa come una provocazione inaccettabile: l’assedio dell’ambasciata Usa di Baghdad.
La prova di forza non è, fortunatamente, andata a finire come nel 1979, quando per un anno e mezzo diplomatici e addetti d’ambasciata rimasero in ostaggio dei rivoluzionari. Né c’è stato, per il sollievo del Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, un remake dell’assalto all’ambasciata di Bengasi di sette anni fa, che oltre a costare la vita all’ambasciatore Chris Stevens procurò un trauma alla già traballante politica estera di Barack Obama.
Seppur scevro dalla violenza, l’assalto all’ambasciata di Baghdad ha finito per rappresentare, agli occhi dell’amministrazione Trump, il fatale passo oltre la linea rossa. Un atto, in altre parole, cui rispondere per le rime.
Nessuno al mondo, tuttavia, avrebbe mai potuto immaginare che la vendetta trumpiana si sarebbe abbattuta sul potente capo della forza Qods. Più che un singolo militare, per quanto influente, gli Usa hanno infatti deciso di spazzare via dalla faccia della terra un simbolo.
In quanto responsabile di tutte le operazioni esterne e clandestine delle forze armate iraniane, Soleimani incarnava al tempo stesso la volontà di potenza in Medio Oriente della Repubblica Islamica – che, in quanto regime rivoluzionario, non ha mai abbandonato il sogno di esportare a destra e a manca le sue dottrine radicali – e il pilastro della resistenza sciita alle mosse degli Usa in quel quadrante.
Lo zampino di Soleimani era dappertutto, dalla Siria di Bashar al-Assad, che i volontari sciiti mobilitati dal generalissimo hanno salvato da morte certa, al Libano dove operano – e siedono tra i banchi del governo, almeno fino alla recente crisi culminata con le dimissioni del premier Hariri – quei combattenti di Hezbollah che rappresentano la quinta colonna dell’Iran nel Mediterraneo (e, va aggiunto, una spina nel fianco del confinante Israele).
Soleimani, in poche parole, era la nemesi degli Usa nella regione più turbolenta del mondo: un ruolo che il generale svolgeva peraltro nella più piena consapevolezza, concedendosi svariate e sprezzanti provocazioni verbali nei confronti degli avversari d’oltreoceano.
Se questi elementi erano già sufficienti per decretarne la condanna a morte, ve n’è un altro che ha contribuito alla decisione di Trump. Sarebbe ricaduto su Soleimani infatti il compito di continuare a punzecchiare gli Usa in un paese come l’Iraq dove non solo la presenza americana è tema che sta spaccando l’opinione pubblica, ma l’Iran – che in seno alla classe politica irachena gode di numerosi appoggi – punta apertamente alla completa estromissione della superpotenza.
E poiché era stato proprio Soleimani, nei lontani anni dell’occupazione americana dell’Iraq (George W. Bush regnante) ad addestrare e armare quei volontari sciiti che hanno causato migliaia di morti tra le fila dell’esercito Usa, il calcolo degli Usa di Trump assume i nitidi lineamenti della razionalità.
Adesso, naturalmente, si tratta di capire come reagirà la Repubblica Islamica all’eliminazione di un leader che, oltre a godere di universale stima presso l’opinione pubblica, era uno stretto confidente della Guida Suprema Ali Khamenei e, in quanto tale, aveva ottime chance di scalare nel prossimo futuro i vertici del regime.
Da questo punto di vista, appare facile profeta il presidente dell’International Crisis Group, Robert Malley, quando ritiene probabile che “l’Iran risponda in modo altamente aggressivo” a quello che, ai suoi occhi, appare come “una deliberata provocazione” da parte degli Usa o, meglio, una vera e propria “dichiarazione di guerra”.
Per capire che nubi fosche stanno addensandosi all’orizzonte bastava seguire il clima ieri in Iran, dove la gente ha appreso la notizia ascoltando la preghiera islamica funebre recitata dall’anchorman del telegiornale del mattino sullo sfondo della foto del “martire”, riversandosi poi a migliaia nelle strade di Teheran e – come ha riferito il corrispondente di CNN – di tante altre città e villaggi.
Mentre le piazze ieri schiumavano rabbia, nella capitale si riuniva il gabinetto d’emergenza per decidere il da farsi. Oltre a proclamare tre giorni di lutto nazionale, e a procedere seduta stante alla nomina del successore di Soleimani nella persona del generale Ismail Qaani, Khamenei ha promesso “una fortissima vendetta” nei confronti dei “criminali che hanno le mani sporche del sangue (di Soleimani) e di quello degli altri martiri dell’altra notte”.
Mentre da Teheran partiva questo monito, il Dipartimento di Stato diramava urgentemente disposizioni, anche via Twitter, ai cittadini americani presenti in Iraq, sollecitandoli ad abbandonare “immediatamente il Paese”:
#Iraq: Due to heightened tensions in Iraq and the region, we urge U.S. citizens to depart Iraq immediately. Due to Iranian-backed militia attacks at the U.S. Embassy compound, all consular operations are suspended. U.S. citizens should not approach the Embassy. pic.twitter.com/rdRce3Qr4a
— Travel – State Dept (@TravelGov) January 3, 2020
Ad Atene, frattanto, Benjamin Netanyahu – capo del governo di un Paese candidato ad essere preso di mira dalla vendetta iraniana – si imbarcava in anticipo su un volo per Gerusalemme, mentre le forze armate israeliane elevavano l’allerta e si procedeva alla rapida chiusura di alcune località turistiche dello Stato ebraico, come la stazione sciistica sul monte Hermon, in previsione di una ritorsione missilistica da parte di Hezbollah.
Netanyahu, in verità, è l’unico leader che ieri ha elogiato senza giri di parole la mossa del suo amico The Donald. Soleimani, ha sottolineato Bibi, non solo “era responsabile della morte di cittadini americani e di molte altre persone innocenti”, ma “stava pianificando altri attacchi”
Assai diversi, invece, i toni usati dagli altri capi di Stato e di governo. Nel corso di una lunga telefonata, il presidente russo Vladimir Putin e il collega francese Emmanuel Macron avrebbero espresso – come si legge nella trascrizione diffusa dal Cremlino – “preoccupazione per la morte” di Soleimani, definendola una “azione che può aggravare seriamente la situazione nella regione”. A queste parole, il capo dell’Eliseo ha aggiunto “un appello a tutte le parti alla moderazione”.
Più funambolica la dichiarazione del ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, che pur sottolineando come il raid Usa sia arrivato al culmine di “una serie di pericolose provocazi0ni da parte dell’Iran”, si è visto costretto a rimarcare come “tale azione non renda affatto più semplice ridurre le tensioni”.
Anche il ministro degli esteri britannico Dominic Raab ha scelto il medesimo registro, evidenziando a un tempo “la minaccia aggressiva posta dalla forza Qods guidata da Soleimani” ma esortando al tempo stesso le parti alla “de-escalation” perché il protrarsi del “conflitto non è nell’interesse di nessuno”.
Allarmati, invece, i toni del Segretario Generale Onu Antonio Guterres, che attraverso il suo portavoce Farhan Haq si è detto “profondamente preoccupato” per l’allontanarsi dell’obiettivo per cui lui stesso tanto si è speso, ossia una “de-escalation nel Golfo”.
C’è nervosismo insomma in giro per il mondo per quella che appare ai più come una mossa sconsiderata dell’amministrazione Trump. Ma lo scontro Usa-Iran non è, come si sa, come “Il tempo delle mele” o qualche altra melliflua pellicola, ma una vera e propria sfida frontale senza esclusione di colpi.
E il colpo sferrato dal governo americano in questo primo scorcio di 2020 ne lascia intravedere altri all’orizzonte, insieme ai tanti mal di testa che tutto ciò procurerà ai non pochi Paesi che, nelle mosse di Trump, vedono tutt’al più le bizze di uno yankee spaccone che cerca la rielezione.